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Rodrigo Fresán, in una lettera, la sintesi di una vita

Rodrigo Fresán, in una lettera,  la sintesi di una vitaUna scena da Billy Budd, direttore James Conlon, regia di Deborah Warner, produzione del Teatro dell’Opera di Roma con il Teatro Real di Madrid e la Royal Opera House di Londra

Scrittori argentini Lo scrittore argentino dedica un romanzo al rapporto tra l’autore di «Moby-Dick» e il padre Allan, al cui cognome la vedova aggiunse una «e», per depistare i creditori in agguato: «Melvill», da Mondadori

Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 settembre 2023

L’imponente trilogia romanzesca composta tra il 2014 e il 2019 dall’autore argentino Rodrigo Fresán – di cui in Italia è uscito solo il primo romanzo, La parte inventata, per i tipi di LiberAria Editrice – si apre con una critica feroce ai «lettori fulminati di oggi, abituati a leggere velocemente e brevemente su piccoli schermi». Il protagonista parzialmente autobiografico del terzo volume, La parte recordada, rincara la dose lanciandosi in una filippica sulla recente proliferazione di fiction ispirate alla vita di scrittori reali, condannando senza riserve autori e lettori ai quali «non interessava la letteratura ma poter dire che gli interessava la letteratura e – a riprova di questo, come chi recita un alibi – poter contare su un paio di aneddoti da raccontare alle cene. Conoscere la storia della figlia pazza di Joyce era molto meglio che leggere James Joyce». Subito dopo, però, il protagonista si dichiara colpevole dello stesso crimine, confessando il sogno di «scrivere una nouvelle sul padre di Herman Melville: uno splendido perdente, che attraversa a piedi il fiume Hudson gelato per tornare dalla famiglia e accanto a loro morire in preda al delirio, sotto gli occhi del piccolo figlio che prende appunti».

Da quasi vent’anni, Fresán rifletteva su questa idea, cui ha dato finalmente concretezza nel romanzo Melvill, uscito nel 2022 e appena pubblicato da Mondadori nella splendida traduzione di Giulia Zavagna (pp. 312, € 20.00). È lo stesso scrittore argentino a raccontare la genesi dell’opera in appendice, osservando come questo romanzo porti uno scrittore «molto celebre a esercitarsi nella realizzazione di qualcuno di cui si sa poco o nulla». La prima e la terza parte, infatti, intitolate rispettivamente «Il padre del figlio» e «Il figlio del padre», immaginano l’autore di Moby-Dick interrogarsi sugli «insostituibili pezzi di una vita che non si incastrano mai del tutto» – la propria, certo, ma soprattutto quella del padre Allan, figura a cui solo la recentissima biografia di John Bryant dà il giusto rilievo nella vita del figlio.

Nella prima sezione di Melvill la narrazione si mantiene in terza persona, ma nelle copiose note a piè di pagina la voce dell’autore statunitense commenta da un’originale prospettiva postuma le vicende riportate nel testo principale. Ad esempio, ascoltiamo Melville rievocare in toni amari il «revival» degli anni Venti del Novecento, quando la sua opera venne riscoperta dalla critica accademica scalando il canone letterario: «Che senso può avere sapersi apprezzato e compreso solo quando non si sarà più lì per ricevere l’anelata corona d’alloro dopo tanti anni di corona di spine?». Nella terza parte, la voce delle note «ascende» al livello superiore e i commenti di Melville «crescono e si elevano al punto da avere ora la stessa dimensione, la stessa grandezza del breve testo principale ai cui piedi sono nate».

A piedi sul fiume Hudson gelato
Questa struttura narrativa parzialmente simmetrica permette a Fresán di deviare dalla tradizionale linearità cronologica del genere biografico e della biofiction per esplorare a tutto campo il rapporto tra Herman e Allan. Quando morì, nel 1832, divorato dalla febbre e in preda al delirio, Allan Melvill (la e verrà aggiunta al cognome dalla vedova nel vano tentativo di «evitare e forse disorientare i creditori del defunto marito») aveva già sperperato tutto il capitale in affari fallimentari e investimenti sconsiderati, lasciando la famiglia sommersa di debiti. Negli ultimi giorni i parenti lo tenevano legato al letto, ritenendolo pazzo al di là di ogni possibile cura. Fresán immagina il piccolo Herman, non ancora tredicenne, seduto al capezzale del padre mentre ascolta affascinato, spaventato e commosso il resoconto febbrile del grand tour europeo compiuto in giovinezza dal genitore, quando un mondo di esperienze e possibilità gli si stagliava ancora davanti. Il racconto di Allan occupa la parte centrale del romanzo, che sin dal titolo, «Glaciologia; o la trasparenza del ghiaccio», si configura come una rivisitazione in chiave postmoderna del cosiddetto «blocco cetologico» di capitoli al centro di Moby-Dick, la parte quasi saggistica dove Melville si sofferma sulla fisiologia e la classificazione delle balene.

Ossessionato dalla trasparenza del fiume ghiacciato che deve attraversare a piedi tornando dal suo ultimo fallimentare viaggio a New York, Allan rievoca in toni deliranti il suo giovanile soggiorno a Venezia (di cui non si hanno notizie storiche), finché «le idee non si presentano più sotto forma di frasi brevi, puntuali e semplici ma si estendono, languide e come ingioiellate, lungo parentesi e trattini e subordinate alquanto esigenti».

Fra il fantasma e il vampiro
Nel cuore della Venezia onirica rievocata da Allan in punto di morte regna un essere misterioso e senza tempo, Nico C., artista cosmopolita raffinato e apparentemente immortale a cui il giovane si accompagna durante il tour europeo. Allan è al contempo atterrito e attirato da questa figura, che sembra conoscere passato, presente e futuro e che dichiara di essere frutto delle «più immaginative e terribili fantasie» degli esseri umani, unione di fantasma e vampiro.

Quando Nico C. offre ad Allan di diventare suo «testimone privilegiato e complice», il giovane fugge in Spagna e poi torna negli Stati Uniti convinto di averlo ucciso. Continuerà a sentirsene perseguitato per il resto della vita. A distanza di anni, Herman cerca di razionalizzare le angosce del padre: «Forse Nico C. non è mai esistito», ragiona, o forse è una «metafora di tutto ciò che mio padre avrebbe voluto essere e non ha mai osato essere», «la febbrile subliminazione di uno dei tanti commercianti molto più astuti di mio padre». Di fatto, le coppie vampiro/succube e impostore/vittima si sarebbero concretizzate nelle più importanti e indimenticabili opere di Melville – basti pensare al rapporto ambivalente che lega Ahab al suo equipaggio, a quello di Bartleby con l’avvocato o di Benito Cereno con lo schiavo Babo, fino all’ambiguo legame che unisce Claggart a Billy Budd, per non parlare del sinistro «confidence man» dell’omonimo romanzo, in grado di ipnotizzare e truffare tutti i passeggeri del Fidèle. Nel suo libro, Fresán immagina che Melville arrivi, pur di salvare il ricordo del padre, a renderlo un personaggio di finzione, reinventandone la storia attraverso generi letterari molteplici, dal Bildungsroman al romanzo gotico, dal picaresco al fantastico. La riscrittura assume ora la prospettiva del Melville esperto e disilluso, che ha abbandonato la narrativa per la poesia: «una forma di fallimento per definizione», che perciò non gli avrebbe reso troppo doloroso «fallire di nuovo con un romanzo». Tutta la storia di Allan è dunque rinchiusa metaforicamente nella e finale aggiunta al cognome dopo la sua morte: una lettera resa pressoché invisibile nel titolo sulla copertina, «come se fosse il più vivo dei fantasmi», la cui aggiunta arbitraria ha avuto il risultato di consegnare la figura di Melville ai posteri mentre obliterava quella del padre.

Nel restituire l’«empio e occulto patrimonio» dello scrittore statunitense a quella dimensione letteraria da cui era stato ingiustamente escluso, Fresàn tenta anche di «salvare» un tipo di scrittura d’altri tempi, fatta di «lunghe frasi febbrili e serpeggianti e marine». Alla fine, intonandosi alla voce infuocata di Melville-Ahab, il narratore non resiste alla tentazione di lanciare un ultimo terribile anatema: «Maledetti siate tutti voi, lettori correnti di romanzi normali, vi auguro una buona e confortevole traversata».

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