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Rodin a New York

Rodin a New YorkAuguste Rodin, «La mano di Rodin», 1917, New York, Metropolitan Museum

Auguste Rodin, al Metropolitan Museum la mostra del centenario della morte Si rinnova l’antico legame del principe degli scultori francesi con l’America: già nel 1912, il museo gli aveva dedicato un ambiente; Edward Steichen lo prese a modello per le sue fotografie

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 15 ottobre 2017

In quest’arco fra la fine dell’estate e il debutto d’autunno, l’arteria verticale del Museum Mile a New York era allineata nel rivolgere oltreoceano coerenti attenzioni al periodo nel quale la scena europea – dominata dall’ambiente parigino e dalla meno accentrata realtà germanofona – vide i lessici delle arti figurative slittare lentamente dalle sofisticazioni cerebrali del simbolismo alle provocazioni altrettanto intellettualistiche delle avanguardie nascenti. Un breve giro di anni, fra l’epilogo estenuato dell’Ottocento e l’alba del secolo successivo, integrato ormai nel récit della modernità e che costituisce la nascita stessa di quell’epoca nuova, stimolante in particolare quando la si approfondisce da prospettive non ovvie.
Il kitsch rosacrociano
Andava in tale direzione il percorso proposto al Guggenheim Museum, a cura di Vivien Green, sul kitsch ricercato dei Saloni Rosa + Croce, riuniti per istigazione dell’irresistibile Joséphine Péladan, Sâr autoeletto di quella compagine sfrangiata che fu il movimento fra 1892 e 1897 e che includeva personalità francesi, belghe e non solo (Gaetano Previati venne invitato alla prima collettiva con il suo capolavoro, Maternità). L’appuntamento si è chiuso il 4 ottobre, ma il catalogo, rilegato in velluto rosso come un messalino di nonna, oltre che soccorrere una discontinua attenzione bibliografica (dallo studio pioniere di Jean Da Silva ai recenti affondi su Carlos Schwabe o Alphonse Osbert), resta a testimoniare la lettura del misticismo del gruppo a mo’ di ponte verso l’uso del linguaggio esoterico operato dalla rivoluzione astrattista.
Gerstl, drammatico
Altra interessante occasione sulla fin de siècle, la monografica su Richard Gerstl (1883-1908), ospitata a pochi numeri di distanza nel piccolo museo di eleganza altoborghese consacrato all’arte austriaca per volontà di Ronald S. Lauder. Sale affollate per l’allure drammatica associata all’esistenza del pittore, uccisosi venticinquenne dopo che il compositore Arnold Schönberg ne scoperse la relazione con la moglie: tuttavia la scelta dei lavori, passata anche per la Schirn Kunsthalle di Francoforte, bilancia bene il proprio centro fra immagini popolari (quasi logore) sul tipo dell’Autoritratto seminudo (1902-’03) e le prove estreme dell’artista, aperte a una trasfigurazione materica di sensibilità crudele. Per la seconda volta, dunque, un itinerario che batte la strada lungo la quale il contemporaneo consumò il distacco dal preziosismo dello Jugendstil internazionale per approdare ai baluginii dell’astrazione pittorica, nella declinazione di Gerstl un tragico informale prossimo ai risultati di Kokoschka.
È allora tanto più significativo che tale linea interpretativa trovi un suo compimento ideale, a pochi metri dalla Neue, nelle sale rinnovate della B. Gerald Cantor Sculpture Gallery al secondo piano del Metropolitan Museum: spazio predisposto dal 1990 per ospitare una selezione di arti francesi del diciannovesimo secolo e ripensato – in occasione del centenario di morte di Auguste Rodin – per la sola oeuvre dello scultore, protagonista di un precoce riscontro statunitense nella fase finale della propria vita. Non a caso un ambiente intitolato all’artista venne aperto al Met già nel 1912, e fu il primo pensato per celebrare in esclusiva un ‘vivente’. Assume quindi valore che in una ricorrenza commemorativa si torni a meditare sulla sua parabola creativa in termini analoghi, con effetti duraturi per le raccolte del museo.
Una tinta opaca
All’inaugurazione, il 16 settembre, le pareti brillanti per la fresca verniciatura testimoniavano del cambio radicale avvenuto nella galleria. I responsabili dell’allestimento (sotto la guida di Denise Allen), al momento di svuotare il corridoio monumentale per arredarlo secondo un’alleggerita scansione delle opere, hanno sostituito al precedente color paglia una tinta opaca, fra la canna di fucile e un vinaccia freddissimo. L’effetto è incisivo. I marmi spiccano sul fondo scuro delle cortine murarie e così fanno i gessi o le terrecotte dei molti bozzetti (poderosi soprattutto gli studi di contrapposto sul 1911, d’après Fidia e il Buonarroti). Similmente brillano le tele provenienti dal Dipartimento di ‘European Paintings’ scelte in un colloquio articolato con la ricchissima collezione rodiniana, arrivata a contare una cinquantina di pezzi di scultura (dopo l’ultimo dono della Iris and B. Gerald Cantor Foundation): l’autoritratto di Eugène Carrière (1893), immancabile accanto all’amico Auguste, effigiato invece in un olio assai compatto di Robert MacCameron (1910); Bastien Lepage, un altro sodale, rappresentato dalla calligrafica Giovanna d’Arco (1879); e poi – convocati per assonanze ‘musicali’ – Pierre Puvis de Chavannes (di cui si ammira La canzone del pastore, testimone meditativo della sua stringata sintesi formale), Claude Monet con due uscite di esatta cronologia, l’eccentrico Von Stuck (il muscolare Inferno ben risponde ai più ginnici Rodin).
Balzac, scintillii cupi
Persino i bronzi si accendono sul tono sordo delle pareti: vi vibrano i riflessi verdi dell’Età del bronzo, gli scintillii cupi del piccolo Balzac e del Pensatore in scala ridotta.
Creazioni siffatte costituiscono del resto l’asse mediano della galleria lungo il quale si inanellano i successi iconici dell’artista, assieme a un intaglio tardo della Mano di Dio (1907), tratteggiando un abrégé delle invenzioni e dei materiali di un catalogo di dimensioni sovrumane. Si spiega perciò la scelta di associare all’apice spaziale del percorso due fusioni come il Torso di Uomo e l’Uomo che cammina, eloquenti più per l’invenzione che per la qualità del getto, al fine di compendiare l’evoluzione del linguaggio dell’artista in chiave di frammentarietà, afasia del soggetto, lirismo puro del ductus.
In una simile ottica risulta del tutto consequenziale la decisione di aprire una sala intima ai suoi esperimenti grafici, raccolti con devozione dal Metropolitan fin dal primo Novecento, in buona parte dalle mani del Maestro. Quelle matite sottili, espanse dalle chiazze opalescenti di acquerello, quei nudi espliciti, sublimati dalla grazia del colore e dall’energia viva del tratto, parlano di futuro almeno quanto le sue creazioni plastiche (lo ha messo bene in luce la rassegna Rodin and America, un importante precedente di studio per l’attuale iniziativa del museo newyorkese): collocarne gli esiti eletti vicino alle foto di tema rodiniano di Edward Steichen, fra i suoi primi interlocutori statunitensi, ne favorisce il valore di legato universale, oltre i confini geografici e le barriere della cronologia, perfino al di là del medium.
Scriveva George Kubler in The Shape of Time nel lontano 1962: «Così l’avvento di Rodin altera l’identità nota di Michelangelo ampliando la nostra comprensione della scultura».

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