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Rock 1973, l’era del «classico minore»

Rock 1973, l’era del «classico minore»La copertina dell'album dei Jethro Tull «A Passion Play», a torto considerato un «classico minore»

Storie/Gli album che cinquant’anni fa furono considerati, ingiustamente, di secondo piano Colpa del successo dei dischi precedenti, di una brutta copertina, di nuove intuizioni. Ne hanno fatto le spese alcuni dei nomi più noti del periodo, da Neil Young ai Jethro Tull, dai Traffic ai Deep Purple. Ecco i titoli che nel tempo sono stati rivalutati

Pubblicato più di un anno faEdizione del 8 luglio 2023

Intanto, bisognerebbe partire dalle istruzioni e avvertenze per l’uso. Che significa «minore»? Considerate un nome importante, di quelli che se vi scappano dalle mani fanno un buco nel pavimento, da quanto sono pesanti, Beethoven. La Quarta e la Ottava sinfonia del burrascoso Ludwig sono «opere minori»? Oppure considerate De Chirico. Il ritorno al (supposto) ordine delle forme classicheggianti è in contrasto o «minore» rispetto all’ipnotica, attonita atmosfera del periodo metafisico, delle piazze geometriche e impossibili? Tutto da vedere. Tot capita, tot sententiae, dicevano i romani. Ognuno la vede a modo suo. Pensate poi al guazzabuglio inevitabile che salta fuori quando si usa dire, con un certo compiacimento, che una cosa d’arte è un «classico minore». Se è «classico», come ebbe per primo a dire Aulo Gellio nel secondo secolo d.C., (e con distinto significato da cosa poi avremmo inteso per «classico», peraltro), come fa a essere «minore»? Insomma, si rischia l’avvitamento cerebrale su una questione che merita di essere riportata alla banalità del quotidiano. Ad esempio all’affollato, redditizio e sempre indagabile mondo del «classic rock», quello che ha fatto da base a tutto quanto è avvenuto dopo, magari per opposizione diretta o dirazzamento stizzito. Sbalzeranno fuori diverse categorie di dischi minori: minori perché, valutati ex post, preme un passato troppo ingombrante e schiacciante, posizionato troppo vicino a quelle opere capitali per giudizio comune, tanto da farle apparire, appunto, minori. Minori per caso commerciale e sfortuna che, notoriamente, prende bene la mira e ha armi sempre ben oliate. Minori perché capitate al momento sbagliato, minori perché un giorno qualcuno s’è svegliato con la luna di traverso, ha controfirmato la ferale notizia della minorità, gli è stato dato credito, e da allora tutti si accodano. In ogni caso, benvenuti nel magico mondo del cinquantenario di alcuni dei migliori dischi «minori» del 1973. Una delle molte possibili scelte. Minori che forse (o con tutta evidenza?) non erano tali. Basta fare la controprova dell’ascolto.

Uriah Heep «Sweet Freedom»
Non ripeteremo per la milionesima volta la storia della band sfortunata cui è rimasto impresso, per anni, lo stigma di una critica svogliata. Basterà rammentare che gli Uriah Heep c’erano nel Settanta e ci sono ancora oggi, una girandola di cambi d’organico, diversi tributi pagati alla Signora con la Falce (David Byron, Gary Thain, Ken Hensley, ad esempio), e l’uomo perno ancora con le redini in mano, Mick Box, professione chitarrista e compositore tra i più sottovalutati nella storia dell’hard rock progressivo. Quando esce Sweet Freedom la risposta critica è moscia come un calamaro lasciato sul bagnasciuga. Per forza, i nostri ne arrivavano da un’accoppiata vincente (in termini di vendite: la qualità c’era eccome anche prima) come Demons & Wizards e The Magician’s Birthday, immaginario fantasy, velature prog, chitarre e tastiere ruggenti. Sweet Freedom paga lo scotto di essere disco «normale», e penalizzato da una copertina che grida vendetta, dopo le finezze pittoriche di un Roger Dean in stato di grazia dei due lavori precedenti. Però Stealin’ entra subito nei cuori con quegli ottavi minacciosi e incombenti scanditi sul basso, dopo un inizio tutto street rock ’n’ roll come Dreamer, e If I Had the Time è forse «la» ballad hard prog mai più eguagliata in finezza.

Deep Purple « Who Do We Think We Are»
Se alle spalle hai due macigni che, se prendono a rotolare, tutto travolgono e spianano ogni cosa, è ben difficile che si possa contare, in futuro, su una rivalutazione tardiva di quanto ha fatto seguito. Alle spalle dei Deep Purple, nel 1973, anno d’uscita del sottovalutato Who Do We Think We Are ci sono non due macigni, ma due montagne: Machine Head, il disco che contiene Smoke on the Water, ovverosia «il» riff per eccellenza a tutt’oggi nella storia del rock duro, e Made in Japan, uno dei rari casi, nella storia della musica fonofissata, in cui performance mercuriali sul palco sono state rese al meglio e con mezzi primordiali anche su disco, restituendone fuoco e passione irripetibile. Critica dunque già col sopracciglio alzato, quando esce questo disco che fa il verso a qualche lettera indignata ricevuta («Chi ci crediamo di essere», in risposta all’ingeneroso «Chi vi credete di essere»). Eppure, a dispetto di una copertina da dimenticare, talmente brutta che oggi, mezzo secolo dopo, viene da pensarla bella, con le bolle fluttuanti che contengono i musicisti, Who Do… è uno dei dischi più raffinati e potenti dell’intera discografia purpleiana, al riascolto. E sia detto senza alcuno snobismo riabilitativo ex post. Woman from Tokyo ha uno di quei riff definitivi che è facile ri-amare, ma Rat Bat Blue è forse quello più inaspettato, swingante e labirintico, nel richiudersi su se stesso, che Ritchie Blackmore abbia concepito: rubando forse nel sonno un’idea a Jimmy Page, per l’impianto più zeppeliano che alla «Profondo porpora». E poi c’è un blues che spesso è stato descritto come riempitivo, Place in Line, e che in molti vorrebbero saper scrivere oggi e un fantastico finale con una ballad mozzafiato, per lo spessore melodico, Our Lady. Al riascolto, da lucciconi.

Can «Future Days»
Nel 1973 i Can, parte dello scheletro fondamentale di quanto sprezzantemente definito kraut rock, e oggi etichetta pacifica quant’altro mai, fanno uscire Future Days. La buona notizia è che quell’annuncio, «i giorni del futuro» s’è rivelato, sulla distanza del mezzo secolo, più veritiero che mai. I Can erano il futuro, e ora sono un futuro anteriore. La cattiva (o meno buona) notizia è che il disco dalla misteriosa copertina blu resta letteralmente schiacciato dalla mole e dalla potenza di fuoco dei lavori che l’avevano preceduto, uno su tutti, che ha finito per colonizzare l’immaginario avant rock, Tago Mago, «il» disco dei Can che nessun estimatore delle vertiginose avventure sonore nella Germania postbellica può esimersi dal conoscere. Future Days è un oggetto sonico liscio, seducente e imprendibile – di appena trentaquattro minuti ripartiti in quattro i brani – oggi tanto quanto lo era mezzo secolo fa, una quieta vertigine su cui galleggia stranita e aliena la voce sottile di Damo Suzuki con le sue filastrocche impossibili e dolcissime, per l’ultima volta in studio con la band. E il battere metronomico di Jaki Liebzeit (uno che s’era stufato di suonare avant jazz, e che capì la sua strada quando un fan gli disse: «Sei bravissimo, ma perché non ti sforzi di essere un po’ più monotono?») per una volta è una piuma isoritmica che accarezza, più che sferzare. Il brano che intitola è una sorta di impossibile funk ambient, Spray è un gorgo ritmico che sa di Miles Davis anni Settanta, Moonshake quieto futurismo sonoro, Bel Air la «piece de resistance», venti minuti in cui la chitarra di Michael Karoli divaga ai confini della follia. Qualcuno ha detto che i Can erano dei crononauti arrivati qui negli anni Settanta da un futuro molto lontano. Forse non aveva torto.

Soft Machine «6»
Se hai costruito pezzo su pezzo, disco su disco la storia del jazz rock, quella scintilla creativa che per una volta, mezzo secolo fa, mise d’accordo pubblici abituati a guardarsi in cagnesco e con malcelati livori (vedi alla voce Perigeo ad esempio, per quanto riguarda le nostre faccende), è piuttosto improbabile che le tue fortune possano durare in eterno. Il fatto è che i Soft Machine hanno inventato tanta e tale ottima musica di ricerca parzialmente «inaudita» in pochi anni (parzialmente perché certe cose erano nell’aria, o nell’underground inglese, o in quanto si inventava il Miles Davis «maledetto» post Bitches Brew, e veniva subito metabolizzato) che poi, arrivati a quel disco indicato solo con la sigla numerica in tanti non erano più disposti ad aperture di credito, in nome di uno snobistico e sempre attuale «questo l’ho già sentito». Tanto più se il gruppo s’era costruito una fama di testa di ponte tra jazz, rock, dadaismo e patafisica con l’immenso Robert Wyatt. Al tempo di Six la formazione è con Hopper, Jenkins, Marshall, Ratledge: riascoltato oggi, questo disco diviso tra una facciata dal vivo e una in studio è un capolavoro di equilibrio jazz rock e fusion ante litteram: tutti lo copieranno, nessuno ammetterà di averlo fatto.

Hugh Hopper «1984»
Parallele alle vicende dei Soft Machine scorrono per molti anni le vicende del membro essenziale Hugh Hopper, bassista elettrico dal tocco «fuzz» inimitabile, per uno strumento che, in territori almeno parzialmente affini ha conosciuto forse solo altri due geni, Jaco Pastorius e Steve Swallow. Nel 1973 esce un disco, 1984, che meriterebbe di essere ascoltato e riascoltato, del baffuto e sfortunato maestro inglese canterburyano scomparso nel 2009. È il suo primo disco solistico, spiccano due lunghe tracce che sondano il distopico mondo che si affaccia dalle pagine terribili di George Orwell: Hopper si accolla basso, percussioni, elettronica minimale, mellophone, John Marshall dei Soft Machine dà una gran mano. Spezzoni di trance music e minimalismo assorbiti da Terry Riley, loop, frasi al basso intasate di riverberi ed echi, paesaggi sonori inconsueti, e poi una sorta di sgretolato r&.b con fiati raccolti da amici del giro canterburyano che affiora nelle tracce più brevi. Qualcuno ha detto che questa strana creatura «minore» (che la Cbs si rifiutò di finanziare) assomiglia all’altrettanto ineffabile The End of an Ear di Robert Wyatt, e ha centrato quasi il cuore del bersaglio.

Jethro Tull «A Passion Play»
Il disco più odiato e vituperato dell’acido menestrello inglese Ian Anderson, a seguire le trionfali avventure sonore confezionate nelle due lunghe suite di Thick as a Brick. Le cronache d’epoca parlano di copie del vinile frantumate da fan stizziti, il tempo – che come si sa è spesso, anche se non sempre – galantuomo ha rimesso a posto le cose: A Passion Play era il disco sbagliato al momento sbagliato, perché in realtà è uno dei frutti più interessanti dell’intero percorso del polistrumentista e vocalist adorato anche dalle nostre parti. Si trattava di usare il metro giusto, e il metro giusto all’epoca non c’era, per un lavoro che usa esattamente la stessa formula di Thick, due suite, ma sviluppa l’idea di una commedia nera decisamente sulfurea, pronta a stemperarsi in toni folk venati di grottesco nella seconda facciata originale. Ian Anderson per la prima volta documenta la sua perizia al sax soprano e sopranino, Martin Barre suona ispirato e durissimo, nei suoi riff, la musica è una creatura cattiva folk rock ammantata di finta dolcezza che guizza da tutte le parti come un’anguilla imprendibile.

Traffic «On the Road»
Dici Traffic, e la mente degli appassionati, come per riflesso pavloviano, corre diretta alle colorate avventure psichedeliche di Mr. Fantasy, che diede anche nome a una fortunata e pionieristica trasmissione sul rock di Carlo Massarini, e per via ancor più diretta, si punta a quella summa di tendenze primi anni Settanta perfettamente calibrate che rendono smagliante John Barleycorn Must Die, 1970, con il tocco magico di Steve Winwood, con la rilassata padronanza di Jim Capaldi, il folk a far capolino, l’ombra del jazz. La prima parte della lunga avventura Traffic si conclude con un doppio ellepì dal vivo in Germania che di rado viene ricordato come mattone essenziale, e che invece scintilla con un canto del cigno possente (prima di una effimera rinascita) e molto «black», per essere opera di un gruppo inglese. I tempi si dilatano, un torrido e spavaldo funk impregna le lunghe divagazioni strumentali, la voce di Winwood più soul che mai (ascoltare per credere Sometimes I Feel so Uninspired), le percussioni terragne di Reebop Kwaku Baah aggiunte sono spezie e condimenti sopraffini.

Neil Young «Time Fades Away»
Il vecchio coyote canadese ha sempre evitato di parlare di questo disco, e neppure ha mai voluto che si ristampasse ufficialmente. Fa parte di quella «trilogia del dolore» con On the Beach e Tonight’s the Night che è un po’ il rovescio della medaglia di certo ottimismo pacificato del Nostro. Era appena morto di overdose Danny Whitten (per lui scrisse The Needle and the Damage Done) e il nostro se ne va in tour a proporre all’impronta canzoni che nessuno ha mai ascoltato gonfie di una sorta di «quieta disperazione», per dirla con Roger Waters. Don’t Be Denied, Yonder Stands the Sinner e il brano che intitola il tutto sono nervi scoperti e sentimenti deragliati. La generazione che stava cambiando il mondo si ritrova a sbattere contro un muro di ipocrisia: «Figlio, non arrivare a casa troppo tardi. Cerca di esserci per le otto. Lo sai che il tempo scivola via», canta un disperato Neil Young, e il tempo era già scivolato via tutto. Precario, dondolante, ma magnifico, al riascolto.

Peter Hammill «Chamaleon in the Shadow of the Night»
Peter Hammill, con i suoi Van Der Graaf Generator indifferenti ai decenni che passano e soprattutto con una carriera solistica che conta ormai decine di titoli è sempre stato così inattuale e fuori moda da essere riconosciuto come attuale e perfettamente nell’onda giusta da generazioni diverse. Quando tutti odiavano il prog rock, i punk adoravano il colto signore con la voce melodrammatica e disarticolata che scriveva di case senza porta, di squali killer e di rifugiati. Nel 1973 ci fu un primo stop per il Generatore, e Hammill se ne esce con un disco frastornante e disomogeneo, perlopiù basato sulla formula voce e pianoforte, o voce e chitarra, una sorta di disarmante modo per mettere a nudo l’abrasiva carica poetica e disturbante di testi da brivido: qui vedi alla voce In the End. Perlopiù, si diceva: perché i compagni d’avventure oscure Van Der Graaf ci sono quasi al completo, e quando arriva In the Black Room è un tuffo al cuore, con il diabolico riff di sax di David Jackson che introduce le danze (macabre), e una seconda parte tutta in crescendo, più prova attoriale che da vocalist. Bello, terribile e misconosciuto.

Grateful Dead «Bear’s Choice»
Se si dovesse mettere in fila tutta l’abnorme discografia dei Grateful Dead, dilatatasi nei decenni per furori archivistici a coprire svariati metri lineari ci sarebbe da rimpiangere di non avere due vite per riascoltare il tutto, o per decidere di soprassedere proprio, visto che nel frattempo avrebbero scovato chissà quanto altro materiale. Dunque è veramente cogliere un fior da fiore la rivalutazione di questa gemma oscura uscita nel 1973 (proveniente da concerti del febbraio 1970 al Fillmore East), che si presenta dimessa e per nulla supponente, e che in realtà ha doppio titolo: «La scelta dell’Orsetto» (che era poi il soprannome di Owsley Stanley, il favoloso ingegnere del suono dei Dead che sapeva anche sintetizzare l’acido lisergico), e «Storia» dei Grateful Dead, Vol. 1: ma curiosamente le cronologie «live» hanno preso tutt’altra direzione. Sta di fatto che qui, in equo dosaggio tra suoni acustici sulla prima facciata e un altro lato elettrico, avete alcune delle più oneste e riuscite prove dell’amatissima band californiana che adorava dilatare brani e spazio tempo.

Copperhead «Copperhead»
John Cipollina è un nome un po’ buffo e di evidenti ascendenze italiane che per i veri rocker però individua uno dei più grandi chitarristi nella storia del genere, scomparso nel 1989: un solista micidiale che trattava la sua Gibson elettrica con le unghie metalliche da fingerpicking, cavandone un suono forte e infiltrato di tremolo unico, che ha fatto grandi i leggendari Quicksilver Messenger Service di Happy Trails, una delle band protagoniste della «Summer of Love» californiana con Grateful Dead, Janis Joplin e Jefferson Airplane. Quando se ne va dalla band Cipollina tenta molte avventure, tutte rimaste in un cono d’ombra. La più bella e dimenticata la trovate qui, nell’unico disco a nome Copperhead, che molto ricorda delle storie Quicksilver, nella formazione a quattro, con un piglio stradaiolo assai più smargiasso, indurito e diretto.

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