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Rocco Scotellaro, una voce necessaria del Meridione civile

Rocco Scotellaro, una voce necessaria del Meridione civileMario Cresci, Tricarico, macchina agricola importata dagli Stati Uniti, dalla serie «Movimenti», 1967

Dopo il centenario L’intellettuale, il contadino, lo scrittore: i Taccuini 1942-1953 e i materiali per un film mai girato (da Quodlibet); gli scritti sulla scuola (da Donzelli)

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

Chi sa se un anniversario come quello dedicato a Rocco Scotellaro, lo scrittore e intellettuale lucano, di Tricarico, nato nel 1923, morto nel 1953, potrà mai essere un giorno superato. Il grande movimento di interesse, che la figura e l’opera di Scotellaro hanno risvegliato, testimonia non solo la rinnovata attenzione che in questi anni suscita l’energia di una voce affatto originale nel panorama della nostra letteratura all’indomani dell’ultimo conflitto mondiale, ma anche la necessità di tornare con maggiore impegno a riconsiderare le formule a volte discriminatorie di un canone del Novecento sempre più composito e articolato. Fra le tante giornate e gli importanti convegni di studi che hanno onorato il centenario dello scrittore lucano si è distinto senz’altro quello internazionale organizzato nella sua terra d’origine da Giulia Dell’Aquila, Sebastiano Martelli e Franco Vitelli. Convegno che ha visto la luce nel ponderoso volume degli atti che ospitano le relazioni di oltre trenta studiosi, Rocco Scotellaro Un intellettuale contadino scrittore oltre la modernità (Quodlibet, pp. 480, euro 35,00).

Contemporaneamente sono uscite due importanti, ovvero decisive, pubblicazioni che rivalutano Scotellaro in un orizzonte più ampio di interessi e trascendono la sfera accademica, dando allo scrittore una profondità non insospettata agli studiosi, ignota però, o comunque non accessibile, a un pubblico più vasto: mi riferisco all’edizione dei Taccuini 1942-1953, cui hanno lavorato in sinergia Vitelli e Dell’Aquila (Quodlibet «Storie», pp. 504, euro 24,00), e al corpus di soggetti, trattamenti e sceneggiatura di un film mancato, I fuochi di San Pancrazio, per cui si è adoprato Sebastiano Martelli, con la opportuna prefazione di Goffredo Fofi (Quodlibet «Storie», pp. 384, euro 22,00).

Non ultimo, si ricordi l’importante ricostruzione di un dibattito che accese, negli anni in cui l’Italia democratica e repubblicana muoveva i primi passi, una questione cruciale per l’affermazione dei nuovi principi di libertà e di eguaglianza (sociale, non solo giuridica) cui avrebbero lavorato intellettuali e politici: mi riferisco alla raccolta degli scritti di Scotellaro e di Manlio Rossi-Doria – partigiano, politico, economista dal metodo rigoroso e innovativo (che ispirò l’Osservatorio di economia e politica agraria di Portici, cui era legato anche il poeta di Tricarico) –, incentrati sull’emergenza scolastica delle regioni meridionali all’indomani della guerra, non trascurabile neanche di fronte a quelle terribili della carenza di case e infrastrutture, dello spopolamento delle campagne e dell’emigrazione (Fare scuola a Sud, a cura di Pancrazio Toscano, Donzelli «Saggine», pp. 208, euro 19,00). Non era in ballo soltanto la definitiva sconfitta dell’analfabetismo, a onore della nuova Italia. La scuola, allora come ora, non poteva essere considerata secondaria nel piano di ricostruzione del paese dal momento che era intesa non solo a insegnare a leggere scrivere e far di conto, ma anche a formare il cittadino, educandolo all’importanza delle relazioni sociali, alla cura di sé e del territorio, al riconoscimento dei propri diritti e doveri. In tal senso, essa riguardava anche la coscienza di quanti, da una posizione intellettuale tutt’altro che esclusiva, elitista e astratta, si ponevano nei confronti del paese come davanti a un quadro di cui scoprire, senza vergogna, i difetti e i limiti, per ricucire quel tessuto sociale e civile che la guerra e prima il regime avevano eroso e dilaniato.

È qui che incontriamo Scotellaro non solo come poeta di È fatto giorno e Margherite e rosolacci, autobiografo de L’uva puttanella, sagace giornalista-reporter de I contadini del Sud, ma anche come interprete di una scrittura che parla a un pubblico pronto a intenderla e ad assimilarla, sulla linea di quella nuova corrente del cinema italiano additata come neorealistica e rapidamente assurta a fama internazionale.

L’interesse di Scotellaro per il cinema, ove non bastasse ricordare gli articoli sui quali già richiamava l’attenzione il «Baobab» mondadoriano Tutte le opere – uscito provvidenzialmente nel 2019 (sempre a cura di Dell’Aquila, Vitelli e Martelli), quasi ad avvisare i lettori dell’imminente appuntamento con il centenario – dunque, tale interesse per il cinema maturava in Scotellaro come risposta all’esigenza di misurarsi con un linguaggio artistico più rischioso, per via dei compromessi cui obbliga la sua confezione ‘popolare’, ma altresì più complesso, per l’ambiguità del suo codice che, mentre lo espone ai tranelli di una fruizione immediata, senza filtri critici (semmai censòri), gli consente però di installarsi nell’inconscio degli spettatori come una fabbrica di sogni. Così, senza abdicare all’obiettivo di comprendere le dinamiche di un mondo contadino in rapida e tumultuosa trasformazione, Scotellaro si lancia nel progetto di un film che non giungerà mai a termine per quanto fosse disposto ad accogliere, dal ’51 al ’52, di stesura in stesura, fra soggetti e trattamenti che culminano in una prima ipotetica sceneggiatura, l’ambizioso piano di giungere a una forma in grado di catturare l’attenzione del pubblico, distraendolo da generi più popolari (dal noir al western, dal comico al mélo strappalacrime), in cerca, insomma, di quella verità umana annidata in ogni storia nella quale lavoro ed emigrazione, illusioni e delusioni, amori e fughe si saldano tragicamente in un finale che lascia tuttavia qualche speranza.

Da I fuochi di San Pancrazio lo sguardo scorre febbrilmente ai «taccuini» che Scotellaro tiene senza soluzione di continuità, con momenti di più o meno intensa applicazione, a partire dal 1942, come un ventenne che si affaccia con qualche timore alle pagine bianche del quaderno centellinando suggestioni e pensieri vaganti, fino al ’53, nei mesi in cui invece è assorbito da quella fucina di idee, progetti culturali, riforme, che ebbero luogo a Portici. A tratti è come leggere un nuovo zibaldone che, analogamente a quello del poeta di Recanati, vede la luce postumo non per ribaltare il giudizio sull’opera del suo autore, né per rafforzare eventualmente i dubbi sulla sua qualità, ma per moltiplicarne gli specchi – ora rifrangenti, ora ustori – che si dispongono come un altro spazio intorno a quello poetico e letterario prontamente desecretato dall’improvviso silenzio della morte prematura e, quindi, decretato, per ovvie ragioni editoriali, «opera omnia». Uno spazio altro, dunque, meno ambizioso, più raccolto e appartato, di invenzione dell’esistenza. Carte e appunti di cui – avvisa Giulia Dell’Aquila – l’autore confessava «la necessità di recupero e riordino (…) anche ai fini dell’attività creativa».

Sono tanti i passaggi che nell’attraversare queste pagine ci vengono incontro acuendo il rincrescimento per non poter sapere di più su questioni che probabilmente avrebbero avuto bisogno di tempo per dipanarsi, ma sollecitando altresì il riconoscimento, in Scotellaro, di una intelligenza vivace e versatile e di una sensibilità rara nella sua cura verso il mondo (le elezioni, la questione meridionale, i convegni, i viaggi e i paesaggi, i libri e i film) e verso l’«altro», siano semplici contadini o acuti intellettuali (da Levi a Saba, da Rossi Doria a Noventa, da Einaudi a Muscetta), come in una delle prima pagine che parlano di Marion, Amelia Rosselli, che si staglia in un lontano 18 settembre del 1951, a Roma, e non sparirà dalla memoria: «Trovo M(arion) a San Silvestro. Andiamo a mangiare. Ella luccica in volto come ieri. Sono due giorni che il suo splendore mi turba. Mi sento schifoso a confronto della sua bellezza. È una bellezza intera, perché anche dentro deve star bene. Sono rari giorni, ella dice, non si pensa a niente e il tempo scorre piacevole. Il pensiero invece rallenta il tempo e dà la noia. O forse la tristezza è più lunga perché ci pensa e non vediamo l’ora di salvarci. Intanto lei nel suo splendore pare che abbia gli occhi in alto, in alto. Sorride da lontano, la sua voce ha un suono di uccello, che non si preoccupa di essere ascoltato. Io sono fuori di lei. Le prendo la mano, ma il suo sguardo mi getta lontano…».

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