La casa editrice calabrese Rubbettino ha deciso di ridare nuova vita alle opere narrative di Rocco Carbone, scrittore-critico nato nel 1962 a Reggio Calabria e cresciuto nel borgo aspromontano di Cosoleto. Il suo sguardo smise improvvisamente di illuminare il mondo della letteratura italiana una notte d’estate romana di quindici anni fa. Era infatti il 18 luglio 2008 quando Carbone perdeva la vita in un incidente vicino Piazza Albania mentre faceva ritorno verso casa, nel quartiere di Monteverde Vecchio. Carbone – autore capace di affermarsi nel contesto narrativo tardo-novecentesco e, tra le altre cose, insegnante nella sezione femminile del carcere di Rebibbia – era da poco rientrato a Roma dagli Stati Uniti, dove da tempo si recava per tenere conferenze.

Insieme ai suoi esordi letterari (Agosto, Theoria, 1993; Il comando Feltrinelli, 1996), Carbone aveva raccolto collaborazioni con le riviste Alfabeta, Linea d’ombra, Nuovi Argomenti, Strumenti Critici, un dottorato a Parigi sullo scrittore Alberto Savinio e una serie di saggi di critica in cui spiccavano lavori su Pascoli e Moravia. La ripubblicazione dei romanzi di Carbone avrà cadenza annuale raccontano dalla Rubbettino ed è ricominciata dalla sua opera numero tre: L’assedio. Dato alle stampe da Feltrinelli nel 1998, L’assedio – altro titolo, come i precedenti, dal sapore ossuto, scheletrico, asciutto – è un’opera dalla potenza profetica e premonitrice che sembra offrirsi oggi come uno specchio dei nostri tempi fra scorie post-pandemiche, incubi nucleari e climatici, futuribili distopie.

La trama de L’assedio prende il via un indefinito lunedì di marzo dal caldo inconsueto quando il cielo, ormai proiettato verso la primavera, smette di essere «celeste tenue» per divenire «giallo». Dalla sua volta inizia a cadere silenziosamente «una pioggia bianca» composta da «finissimi granelli di sabbia». Tra i primi ad accorgersi di tutto è il personaggio di Saverio Morabito, impiegato da oltre vent’anni all’Ufficio Centrale delle Poste della sua città. Davanti ai suoi occhi il cielo diventa «basso e ostile» e riesce ad alterare «la vista su ogni cosa», conferendo «alla città ancora silenziosa un aspetto nuovo, come di un luogo sul quale, improvvisamente si fosse calata una volontà decisa a mutare il corso degli eventi, a promettere o minacciare una nuova stagione e una nuova prova ai suoi abitanti». Siamo in un luogo imprecisato denominato attraverso una telegrafica e puntata lettera «R.».

Una «lontana città del meridione» colpita anni prima da un tremendo terremoto, popolata da «alberi tropicali» e bagnata da un «mare inquieto, perennemente attraversato da correnti, freddo anche d’estate». Un contesto urbano che sta per essere circondato da un esercito governativo in attesa di dover intervenire per fronteggiare l’insolita situazione meteorologica. Una condizione che da atmosferica sta per trasformarsi inevitabilmente in esistenziale. Perché quella pioggia che sembra cenere è capace di uccidere e di mettere in crisi una vita comunitaria che si dividerà tra atti di solidarietà e gesti di egoismo. C’è chi si mette in fuga e chi cerca di procurarsi il cibo a tutti i costi, mentre gli ospedali sono presi d’assalto e nelle carceri scoppiano rivolte. La sopravvivenza dell’uomo sembra essere a rischio. E quando Saverio interroga padre Retez su quello che sta accadendo, il suo vecchio amico che ha scelto di indossare l’abito talare gli risponde così: «Credo in Dio, Saverio. Credo nel Dio di tenerezza e di pietà che insegnano le Scritture». Sono queste le linee narrative lungo le quali si snoda la scrittura di Rocco Carbone, autore capace di attraversare la linea di confine che segnava il passaggio dal ventesimo al ventunesimo secolo.

A firmare la presentazione del volume è Emanuele Trevi, vincitore del premio Strega 2021 con Due Vite, opera dedicata, insieme a quella di Pia Pera, proprio alla parabola biografica di Carbone. Si legge nelle pagine introduttive: «La prosa di Rocco Carbone si è caratterizzata per la sobrietà e la minuta precisione del discorso, in una tensione anti-retorica che allaccia la sua ricerca personale ai grandi modelli del Novecento italiano di Romano Bilenchi e Alberto Moravia, ma anche alla lezione dei maestri giapponesi, soprattutto l’amato Kawabata. Quello che si costruì in tal modo è uno strumento stilistico straordinariamente adeguato a una materia psicologica, per converso, ribollente di ogni forma del montaliano «male di vivere», indagato attraverso conflitti che oppongono drammaticamente il singolo agli ambienti familiari, sociali, storici».