Cultura

Robot da indossare, se le protesi istruiscono i nostri sensi

Robot da indossare, se le protesi istruiscono i nostri sensi

Scaffale Il libro «Il corpo artificiale» di Simone Rossi e Domenico Prattichizzo, per Raffaello Cortina editore

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 28 dicembre 2023

L’abito fa e non fa il monaco. Due versioni di un antico proverbio di cui l’una è il contrario dell’altra. Eppure entrambe possono essere utilizzate a seconda della situazione in cui viene a trovarsi la stessa persona. Potremmo dire che quello dell’abito del monaco è un proverbio quantico. In ognuna delle sue versioni si conserva anche un po’ dell’altra, senza la quale nessuna delle due potrebbe davvero funzionare.

UN’AMBIVALENZA quantica analoga a quella del proverbio sembra si stia affermando pure nelle neuroscienze che si confrontano con i dispositivi cibernetici e robotici costruiti per fare da protesi fisica e sensoriale. Inseribili nel corpo o più semplicemente indossate, le protesi possono non solo funzionare meccanicamente per sostituirsi a movimenti articolari danneggiate, ma anche indurre a modificare funzionalmente o disfunzionalmente l’attività cerebrale e nervosa. Come se questi dispositivi indossabili non facessero unicamente da protesi al corpo, ma allo stesso tempo quest’ultimo facesse da protesi ai dispositivi, in un’interazione che agisce in dare e avere su entrambi i versanti, benché asimmetricamente.

TUTTI I DISPOSITIVI di cui si parla nel libro di Simone Rossi e Domenico Prattichizzo, Il corpo artificiale. Neuroscienze e robot da indossare (Raffello Cortina, pp. 179,euro 19) come «il sesto dito robotico», «le cavigliere vibranti per il Parkinson», «il dispositivo indossabile per gli acufeni» indicano che questi possono essere efficienti soltanto se non consideriamo il corpo con cui vanno a interagire esclusivamente come una funzione macchinica alla quale darebbe impulso il cervello senza che i dispositivi possano, a loro volta, influenzare e perfino istruire la sensitività del medesimo corpo.
Da tempo si ammette l’esistenza di un «sesto senso» aggiunto ai cinque canonici. Ha tra le altre funzioni anche quella di avvertirci riguardo l’equilibrio e lo squilibrio nel lavoro di insieme degli altri sensi con il sistema nervoso e gli input sensoriali che a quest’ultimo possono arrivare attraverso una protesi esterna. Ciò avviene, per esempio, nel cosiddetto «mismatch sensoriale», dovuto all’esposizione prolungata al visore con il quale ci immergiamo nella realtà virtuale.
Il sesto senso è una sorta di interfaccia fra quelli canonici e fra questi e la vertigine che ci viene quando siamo in una situazione che il corpo percepisce come non abituale. Il sesto senso ci rivela che il cervello non produce solo intelligenza elaborata a partire dalle sensazioni che gli arrivano, ma che riceve anche intelligenza già costruita nella percezione dei sensi e nel sistema nervoso periferico. «Sistema vestibolare», «propriopercezione», «senso aptico», questo «sesto senso» non è esattamente localizzabile perché, come già era implicito in quello che Aristotele diceva del tatto, esso è una sorta di medio degli altri sensi.

PIÙ SPECIFICAMENTE la sua funzione è quella di rivolgere la sensibilità del tatto alla stessa capacità tattile del corpo, rivelando in tal modo che il tatto è pure un «contatto» il quale, più che separare tra esterno e interno, tra cerebrale nervoso e sensibile, avverte del diverso grado di intensità in equilibrio o squilibrio di tutto il corpo, incluse le estensioni artificiali o le deficienze fisiche. Si pensi, con un esempio estremo, a chi continua a avere la sensazione di un arto quando questo è stato amputato.

IL FATTO che i dispositivi indossabili possano interagire profondamente nel nostro sistema cerebrale nervoso senza necessariamente entrare fisicamente nel nostro corpo, forse ci mostra più di ogni altra cosa che non possiamo prescindere dal mettere in gioco, pure in ambito fisico, neuroscientifico e robotico, la dimensione dello psichico, nella quale, analogamente all’abito che fa e non fa il monaco, ciò che funziona può basarsi su una disfunzione rifunzionalizzata. La robotica soft da indossare ci dice che non si può separare completamente ciò che funziona ed è sano da ciò che è disfunzionale malato e viceversa.
Così, per esempio, la «cyber-sickness» di cui parlano gli autori del libro è certamente una patologia e un sintomo. Ci avverte che ciò che consideriamo virtuale può avere non solo effetti realistici di persuasione psicologica, ma effetti fisici reali a latere di quelli psicologici.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento