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Robin Robertson, la guerra in forma di noir

Robin Robertson, la guerra in forma di noirMarie-Lou Chatel, colorazione e ritocco di una fotografia scattata da Esther Bubley, «Un soldato e una ragazza si dicono addio allo stazione degli autobus, Indiana, 1943»

Poesia contemporanea Inseguendo i vagabondaggi di un reduce, l'autore scozzese riformula in modo originale gli stilemi e le strategie dell’epica: «Un nodo alla gola», poema in prosa e versi liberi, da Guanda

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 13 febbraio 2022

Si è detto spesso che in ogni racconto di guerra, sia esso un combat novel o il faticoso e complesso «ritorno a casa» di un reduce segnato indelebilmente dalla sua esperienza traumatica, c’è un po’ di Iliade o qualcosa dell’Odissea. The Long Take, or A Way To Lose More Slowly, il lungo poema in prosa e versi liberi di Robin Robertson, uno dei massimi poeti viventi di lingua inglese, per le tonalità che vi si ritrovano, per scelte retoriche, per i riferimenti intertestuali, merita di venire iscritto al mondo dell’epica. Tradotto in modo convincente da Matteo Campagnoli, con il titolo Un nodo alla gola (come perdere più lentamente) (Guanda pp. 256, € 19,00), persegue infatti «un principio organizzativo dell’immaginario letterario» che impiega, sia pure in modo selettivo e del tutto personale, una serie di stilemi e strategie che appartengono a quella tradizione.

Robin Robertson ha sempre mostrato un interesse particolare per forme di scrittura – come la fiaba e la leggenda, la mitologia classica e quella celtica – vicine all’epica. Del resto, The long take si distingue anche – come scrive uno dei giudici che hanno premiato Robertson con il Goldsmiths – per essere un «romanzo-film noir in versi, pieno dell’accecante luce del sole e di ombre persistenti».

Riferimenti al cinema
Nel titolo originale il riferimento all’universo del cinema viene reso esplicito dal termine tecnico long take («lunga ripresa», da non confondere con «piano sequenza»), mentre nella traduzione italiana si è scelto di sottolineare il registro noir, tanto che il titolo replica quello del film di Hitchcock del 1948. Protagonista del volume è Walker, un reduce canadese della seconda guerra mondiale, che ha partecipato al D-Day e alla liberazione dell’Europa, e che, tormentato dai ricordi degli orrori vissuti e incapace di fare ritorno alla Nuova Scozia della sua gioventù, tenta un’altra vita trasferendosi negli Stati Uniti – prima a New York e poi a Los Angeles e San Francisco.

Trova inizialmente lavoro nel porto di New York, e essendo un «camminatore» di nome e di fatto, si trascina per i vicoli e i locali di una città violenta, indifferente ai destini tanto degli ex soldati quanto dei poveri e degli emarginati. Walker incontra per caso il regista di film noir Robert Siodmak e accoglie il suo suggerimento di trasferirsi nella città degli angeli. Ma lungi dall’incrociare spazi edenici, Walker troverà aree urbane drammaticamente divise tra benestanti e poveri, tra l’indifferenza di folle anonime e i bassifondi di una dolente e discriminata umanità composta da neri, chicani, indiani sradicati e in larga parte da veterani senza lavoro, abbandonati a sé stessi da un’America preda dell’isteria maccartista. «Le città sono una sorta di guerra, pensò:/a volte molto distante, poi, all’improvviso, molto vicina».

E questa «guerra» è particolarmente palpabile a Los Angeles, sventrata ripetutamente per perseguire progetti di «riqualificazione urbana» finalizzati a espellere non solo i residenti poveri ma un intero «esercito» di senza fissa dimora: «Abbiamo vinto la guerra, ma viviamo come se l’avessimo/persa».

Sul piano narrativo, l’opera segue i vagabondaggi di un Walker-Ulisse tormentato dai ricordi della violenza vissuta, che riesplode nella sua testa di continuo, e in particolare quando vengono sparati i fuochi di artificio del 4 luglio, o quando i martelli pneumatici procedono nella loro opera di demolizione. A Walker resta tuttavia preclusa la possibilità omerica del nostos, del ritorno alla Nuova Scozia della gioventù. La sua Annie, i boschi, i laghi e i fiumi con le trote che guizzano in acque pure come quelle dei grandi racconti di Hemingway, riappaiono – rigorosamente in corsivo – come i ricordi dello sbarco in Normandia e degli orrori della guerra, incastonati in un tempo che non può riavvolgersi e che si trova gelosamente conservato nella memoria.

A Los Angeles, Walker trova lavoro come reporter per un giornale locale, occupandosi sia della situazione dei reduci e dei senza tetto, sia di recensire o seguire la produzione di alcuni film in uscita presso la grande «fabbrica di sogni» hollywoodiana. Ma i film che più affascinano Walker sono i noir, pellicole il cui marchio distintivo è l’incerto confine tra il bene e il male.

La scelta di Robertson di filtrare il racconto del reduce e più in generale tutta la riflessione sulla guerra attraverso l’universo noir è interessante non solo di per sé, ma anche perché in continuità con analoghi tentativi di sottolineare l’ambiguità politica e morale della guerra utilizzando una cornice narrativa ereditata dalla tradizione hardboiled di Raymond Chandler e Dashiell Hammett.

Magistrale, in questo senso, è la riscrittura della Waste Land di Eliot in forma di racconto chandleriano proposta trent’anni fa nel graphic novel di Martin Rowson (purtroppo mai tradotto in italiano), oppure – esempio più recente – il bel neo-noir di Elliott Colla, Baghdad Central, focalizzato sulla devastazione politica e morale dell’Iraq all’indomani dell’occupazione anglo-americana (anch’esso non tradotto in italiano, anche se su Sky è disponibile la serie televisiva ispirata al romanzo, andata originariamente in onda sul Channel Four britannico).

Il linguaggio di Robertson lega in modo efficace le tinte noir alla corrente di violenza che percorre sotterraneamente il testo – «Certe parti della città erano puri blocchi di tenebra,/dove la luce filtrava come una lama per inciderla e aprirla:/uno stiletto sottile, poi con un fiotto di bianco; lo squarcio/diagonale/di un’ombra, tranciata» – concentrandosi su immagini e oggetti (come il coltello da combattimento che Walker porta sempre con sé) la cui funzione è ricordarci non solo come per il reduce la guerra non sia mai finita, ma come essa venga sempre persa, anche se a volte «lentamente», come recita il sottotitolo dell’opera. Oltre a insistere sulla sdrucciolevolezza dei confini tra pace e guerra, il giusto e l’ingiusto, vittime e carnefici, la cornice noir serve a Robertson per sottolineare gli ostacoli e i passi falsi nella quest del suo personaggio principale. Se, come ha scritto un’esperta del genere come Lee Horsley, la narrativa noir pone in risalto le difficoltà di leggere i segni di un mondo mendace e ingannevole, mettendo ripetutamente alla prova le risorse intellettuali e morali dell’eroe, analogamente Robertson si concentra sull’altalena di disperazione e volontà di capire che contraddistingue l’odissea di Walker.

Diversi registri
Ovviamente, la poesia «epica» contemporanea non conosce lo stile eroico della poesia omerica, e mescola diversamente registri linguistici che spaziano dagli ammiccamenti ai classici al linguaggio del pub (la Waste Land eliotiana è anche qui paradigmatica). Campagnoli fa del suo meglio per restituirci questi diversi livelli espressivi, ma è evidente che i timbri, le assonanze, i ritmi dell’originale non sempre possono essere riprodotti. In questa anomala versione di romanzo in versi fa inoltre ripetute apparizioni una figura mitica non della classicità, bensì autoctona: quella del coyote, demiurgo e signore del caos in molte tradizioni nativo-americane, e dunque calzante metafora della tensione dialettica tra distruzione e creazione che percorre tutto il testo. Il riferimento a una figura dell’Origine rafforza il respiro epico dell’opera di Robertson, così come i versi finali, che, sebbene non privi di una venatura parodica, tradiscono la loro impronta virgiliana: «“Adesso posso fermarmi”, disse, /portando la bocca alla bocca della bottiglia. / “Farò qui la mia città.”»

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