Cultura

Roberto Esposito: l’energia istituente della prassi

Roberto EspositoIl filosofo Roberto Esposito

Intervista A colloquio con il filosofo Roberto Esposito a proposito del suo ultimo libro «Vitam instituere. Genealogia dell'istituzione». L’analisi di un lemma del diritto romano, messo alla prova delle opere di Machiavelli, Spinoza e Hegel. "Andare alla fonte di un concetto, ricostruire la sua storia e, eventualmente, le sue molte trasformazioni consente di intenderne meglio il significato". "I processi vitali (nascita, morte, invecchiamento, salute, genere) implicano sempre più scelte politiche, che possono essere diverse, di tipo conservativo o innovativo"

Pubblicato più di un anno faEdizione del 2 giugno 2023

La vita e l’istituzione, la necessità e la libertà, la storia e la natura si incrociano in una prassi politica che Roberto Esposito ha chiamato Vitam Instituere nel suo ultimo libro (Einaudi, pp. 150, euro 20). Questa «Genealogia dell’istituzione», terzo volume di una serie composta da Pensiero istituente (Einaudi, 2020) e Istituzione (Il Mulino, 2021), analizza un enigmatico lemma del diritto romano, lo mette alla prova delle opere di Machiavelli, Spinoza e Hegel e mostra come oggi la politica sia un’energia istituente ricercata e contesa.

Nel 1995 Giorgio Agamben scriveva «Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita». Lei ha da poco pubblicato «Vitam Instituere». Perché questo ricorso al latino nei titoli?
Il ricorso al latino si lega alla modalità genealogica con la quale sia Agamben che io stesso, diversamente, lavoriamo. Andare alla fonte di un concetto, ricostruire la sua storia e, eventualmente, le sue trasformazioni consente di intenderne meglio il significato. Inoltre se il concetto di homo sacer è effettivamente oscuro – almeno prima che Agamben lo abbia indagato, risignificandolo – vitam instituere rimanda a qualcosa di immediatamente evidente, vale a dire alla relazione costitutiva della vita con l’istituzione e, più precisamente, con l’atto di istituire. La vita è allo stesso tempo sempre istituita, vale a dire sempre formata dentro un determinato contesto, e anche istituente, nel senso che istituisce sempre nuovi significati. Anche se l’articolazione tra questa due modalità, passiva ed attiva, richiede un lavoro di decifrazione, al quale il libro è dedicato, lungo un tragitto che dalle origini romane, passando per tre grandi classici del pensiero moderno, Machiavelli, Spinoza e Hegel, arriva fino al Novecento.

L’idea ricorrente in questa stagione filosofica è la politica e la sua relazione con la vita. Per quali ragioni ha assunto un simile rilievo oggi?
Sì, mai come oggi la politica appare rapportarsi alla vita. Intanto perché una politica che non si relaziona alla vita, in senso biologico e simbolico, non interesserebbe nessuno. E poi perché la tecnica investe sempre più i processi biologico-naturali, incidendo sul significato e il destino della vita umana. Peraltro usciamo appena da una pandemia che ha minacciato la vita alla sua fonte e in tutta la sua estensione. La politica ovviamente ha dovuto fare i conti con tale emergenza, adottando protocolli di diverso tipo, alcuni dei quali criticati, più o meno a ragione. Ma a nessuno è venuto in mente di contestare che si dovesse intervenire politicamente su questioni di interesse vitale. Tutti i processi vitali – nascita, morte, invecchiamento, salute, genere – implicano sempre più scelte politiche, che possono essere ovviamente diverse, di tipo conservativo o innovativo.

Il pensiero politico italiano sembra essere ostaggio della teologia politica. Quali sono le ragioni che hanno portato a questo idea?
Le ragioni di questa presenza della teologia politica vanno ricercate intanto nella sua diffusione nella cultura, filosofica e politica, novecentesca. Non è mancato chi, sulla scorta di Walter Benjamin, ha riconosciuto una radice teologica anche nell’economia capitalistica europea. In Italia questa riflessione ha acquistato un peso crescente soprattutto a partire dalla crisi del marxismo. E ciò nonostante la presenza di autori come Machiavelli e Gramsci. Si può dire che a un certo punto il pensiero radicale, nato da questi autori, sia stato sostituito da un pensiero estremistico che ha smarrito il rapporto con il proprio radicamento storico. Esso procede per separazione e contrapposizione, anziché per articolazione – per esempio tra potere e vita o tra libertà ed eguaglianza. Una volta separate filosoficamente, queste polarità possono essere riunite solo in forma teologica, declinata in senso escatologico o messianico. Ciò porta necessariamente all’abbandono della prassi politica, come era diversamente pensata da Machiavelli e Gramsci, ma anche dall’umanesimo civile e dell’illuminismo italiano. Il pensiero che possiamo definire «istituente» nasce, al contrario, dall’esigenza di riconnettere filosofa e politica, opponendo alla teologia politica un’ontologia politica materialista.

L’istituzione è stata intesa come una potente macchina di neutralizzazione del conflitto politico. Lei invece invita a riscoprire «l’energia inesauribile della prassi istituente». Cosa significa?
Effettivamente nella cultura filosofica europea è prevalsa un’interpretazione conservativa, e spesso anche repressiva, delle istituzioni. Già Nietzsche parlava dello Stato come «mostro freddo» e Weber adoperava l’espressione «gabbia d’acciaio», opponendo alle staticità delle istituzioni la forza innovativa del carisma. Poi, nella seconda metà del Novecento l’intera filosofia di sinistra – da Sartre a Marcuse, da Foucault a Bourdieu – ha pensato le istituzioni come luoghi di controllo e di blocco della vita individuale e collettiva. Certo, nel concetto di istituzione vi è un elemento stabilizzante – implicito nella radice «st» – ma anche un elemento innovativo, creativo e appunto istitutivo di qualcosa che non esisteva in precedenza. Per cogliere questo elemento energetico, che va sempre più potenziato, bisogna guardare alla logica istituzionale meno dal punto di vista del sostantivo «istituzione» e più da quello del verbo «istituire».

Il diritto, anche nel pensiero critico, è stato inteso come un dispositivo di controllo e di repressione. In che modo il suo «pensiero istituente» affronta il problema?
Come sostiene Luhmann, il diritto è il sottosistema immunitario dei sistemi sociali. Ciò significa che ha una funzione protettiva nei confronti di conflitti potenzialmente distruttivi della società. E in effetti nessuna società avrebbe potuto reggere in mancanza di un qualche sistema giuridico. Ma il punto è che il diritto stesso – la battaglia per la sua definizione e per la sua trasformazione – produce a sua volta nuovi conflitti. L’istituzione – quella giuridica, ma anche ogni altra – ne viene attraversata in tutta la sua estensione. Si pensi all’istituto romano al centro della riflessione di Machiavelli, quello del tribunato della plebe. Non solo la sua istituzione è l’esito di forti conflitti, ma ne produce altrettanti. Da questo punto di vista, come hanno messo in luce, ciascuno dal proprio punto di vista, Spinoza e Deleuze, il diritto coincide con la potenza vitale di ogni organismo individuale o collettivo.

Le società neoliberali in cui viviamo rimuovono il conflitto sociale e lo spoliticizzano. In che modo è invece possibile recuperarlo e innovarlo?
Mi pare che questa spoliticizzazione valga per il piano giuridico e per quello politico. Meno per quello economico. Il mercato è un’istituzione, anzi l’istituzione principale all’interno dei regimi neoliberali. Non solo, è anche un’istituzione basata in qualche modo sulla concorrenza, dunque su un conflitto freddo tra potenze finanziarie che si sfidano per la conquista del mercato mondiale. E c’è sempre il rischio che il conflitto economico possa trasformarsi in conflitto militare, come del resto in parte sta già accadendo. Ma è vero che ciò avviene a danno del conflitto politico. La spoliticizzazione in questo tipo di società passa per l’azzeramento del potere costituente rispetto ai poteri costituiti. Il pensiero istituente, o meglio la prassi istituente, rovescia questo rapporto, ridando rilievo alla potenza istituente. Ciò cui il mio libro rimanda non è un progetto per il futuro, ma qualcosa già in atto, che si tratta di allargare e potenziare.

Chi si batte per l’uguaglianza e la giustizia, contro il razzismo, la disoccupazione e la povertà, come può usare il suo libro?
Se si parte dall’idea che eguaglianza e giustizia non esistono, o che sono largamente insufficienti, vuol dire che devono essere istituite o re-istituite. Non in astratto, ma all’interno di realtà materiali, forme di vita, rapporti di forza. Lo stesso si può dire dell’accoglienza degli stranieri e della lotta contro povertà e disoccupazione. Il problema non riguarda il perché, ma il come, si possano istituire. I beni comuni, poi, sono stati oggetto non solo di un dibattito assai ampio, ma anche di alcuni referendum, come quello sull’acqua, in cui la riflessione e l’operato dei giuristi sono stati decisivi. Se si pensa che già nella Roma antica anche la natura era oggetto di istituzione, si coglie il rilievo trasversale del principio istituente. Ma oggi, oltre che l’oggetto, bisogna definire anche il soggetto della prassi istituente. Già prima si parlava dei movimenti, ma personalmente non escluderei neanche i partiti, o almeno i partiti che includono al proprio interno esigenze e modalità dei movimenti istituenti. Del resto i soggetti non si limitano a precedere la dinamica istituente, ne derivano anche. Tutti i processi di soggettivazione, sia individuali che collettivi, sono da un certo punto di vista processi di istituzionalizzazione. Trasformano ciò che già c’è, creando quello che non c’è ancora.

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