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Roberto De Simone, maestro all’opera

Roberto De Simone, maestro all’operaRoberto De Simone, fotografato nella sua casa, 2015 (foto Salvatore Laporta/KONTROLAB/LightRocket via Getty Images)

90 anni Vita ricerca e composizioni di un genio della musica

Pubblicato circa un anno faEdizione del 26 agosto 2023

«Quando cominciai a pensare alla Gatta Cenerentola pensai spontaneamente ad un melodramma: un melodramma nuovo e antico nello stesso tempo come nuove e antiche sono le favole nel momento in cui si raccontano. Un melodramma come favola dove si canta per parlare e si parla per cantare o come favola di un melodramma dove tutti capiscono anche ciò che non si capisce solo a parole. E allora quali parole da rivestire di suoni o suoni da rivestire di parole magari senza parole? Quelle di un modo di parlare diverso da quello usato per vendere carne in scatola e perciò quelle di un mondo diverso…». È un breve frammento tratto dalla presentazione dell’opera La gatta Cenerentola del maestro Roberto De Simone (Napoli, 25 agosto 1933) che debutta al Teatro Nuovo il 7 luglio 1976 nell’ambito del Festival dei due Mondi di Spoleto. Un successo immediato. La gatta Cenerentola commistiona linguaggi desunti dalla tradizione orale, dal letterato Giambattista Basile, dalla musica settecentesca napoletana e dai significanti dell’interiorità fantastica e magico-rituale del Meridione. Del resto, l’essenza dell’opera è la religiosità popolare. Le figure/sentimenti divengono simboli in cui si concentrano aspirazioni e paure che nell’immaginario collettivo s’identificano col malessere dei napoletani.

De Simone inventa un tessuto musicale e teatrale originale e prezioso, un melodramma moderno dove si ritrovano villanelle, madrigali, tarantelle, cori, arie di tradizione orale, brani ispirati al Cinquecento e al Seicento. Un melodramma, una favola in musica che si avvale di una scrittura antieduardiana, una peculiarità che caratterizzerà tutte le sue opere. Un capolavoro assoluto del Novecento. Eppure, in un contesto così importante Napoli e le istituzioni, ieri come oggi, sono totalmente assenti, tant’è vero che i fondi per realizzare l’opera arrivano dalla regione Emilia Romagna. Figura sibillina e composita del teatro del secondo Novecento si rivela De Simone che, col modo d’intendere il teatro, recide fermamente e fortemente le convenzioni piccolo borghesi del teatro eduardiano.

L’enfant prodige intraprende lo studio del pianoforte all’età di sei anni. Nel 1946 s’iscrive al Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli, diplomandosi in pianoforte e composizione. Già a quindici anni, come allievo, esegue prima il Concerto per pianoforte e orchestra K. 466 di Wolfgang Amadeus Mozart e successivamente il Concerto in do minore n°3 per pianoforte e orchestra di Ludwig van Beethoven, scrivendo egli stesso per entrambi anche le cadenze. Pertanto, viene consacrato tra gli allievi più meritevoli dei Conservatori italiani per partecipare al Premio nazionale intitolato a Giuseppe Martucci e dove si posiziona tra i primi classificati. Nel 1957 intraprende una brillante carriera concertistica, cui affianca ricerche antropologiche e musicologiche sul campo, specialmente nell’area campana – ricerche per le quali gli studiosi Franco Autiero e Annibale Ruccello sono stretti collaboratori – e attività di compositore e regista teatrale.

Le ricerche storico-musicali confluiscono in revisioni musicali e regie di opere che tratteggiano la rivalorizzazione del repertorio operistico sei/settecentesco di scuola napoletana, tra cui si menzionano Li zite ’ngalera di Leonardo Vinci, opera presentata e revisionata per la prima volta in chiave moderna nel ’79 al 42° Maggio Musicale Fiorentino; due opere di Giovanni Battista Pergolesi: Il Flaminio, messo in scena per il Teatro San Carlo nell’’82, e Lo frate ’nnammorato, presentato al Teatro alla Scala nell’’89. Quale autore di musiche per balletti, pièce teatrali e film, si ricordano Edipo Re, La lunga notte di Medea, Masaniello, Quant’è bello lu murire acciso. Nel ’77 pubblica Io Narciso Io, un divertissement per il quale scrive brani, musica, orchestrazioni, e lo si ascolta nelle vesti di cantante.

Si muove sulle orme di Ernesto de Martino e Diego Carpitella; esplora il tessuto magico-religioso della cultura popolare meridionale; riporta alla luce folklore ed espressività musicale e gestuale delle classi subalterne, restituendo dignità a un patrimonio immenso che secondo Antonio Gramsci «non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio». Una ricchezza culturale destorificata e privata di ogni significato dalla borghesia napoletana e dall’intellighenzia. Gli studi antropologici costituiscono materiale per saggi e antologie di dischi tuttora basilari per comprendere il vasto tessuto culturale meridionale. Tra i volumi si rammentano Chi è devoto, Carnevale si chiamava Vincenzo (con Annabella Rossi), La gatta Cenerentola, La tradizione in Campania (opera che comprende sette dischi), Il segno di Virgilio, Racconti e storie per i 12 giorni di Natale, La Cantata dei pastori, L’opera buffa del giovedì Santo, Novelle K 666. Fra Mozart e Napoli, Satyricon a Napoli ’44, La canzone napolitana.

L’incontro con giovani interessati alla rinascita della musica popolare fa sì che si formi la Nuova Compagnia di Canto Popolare, di cui fino al ’77 De Simone è direttore artistico e revisore dei materiali musicali. Con essa prende parte nel ’74 al Festival dei Due Mondi di Spoleto con una singolare rilettura della Canzone di Zeza. A dicembre dello stesso anno mette in scena al Teatro San Ferdinando di Napoli un’edizione critica della seicentesca La Cantata dei pastori di Andrea Perrucci, riscrivendo la struttura drammaturgica e componendone la musica. Nel ’79, nell’ambito della Rassegna ‘Estate a Napoli’, revisiona le musiche e dirige Festa di Piedigrotta di Raffaele Viviani. Con La Cantata dei pastori, La gatta Cenerentola, Mistero napolitano e L’opera buffa del giovedì Santo, va oltre il folklorismo borghese; crea esempi dotti di teatro popolare, rivelatori del conflitto tra diverse forme e funzioni della cultura presenti all’interno di una comunità organizzata. Ciò appare con maggior chiarezza nell’intricato corpus musicale, composto da ritmi mutuati dalla produzione musicale di tradizione orale e da elementi della musica colta e sacra napoletana ed europea del 1600 e 1700. Tant’è che il Maestro asserisce: «Il teatro melodrammatico tuttora ha le sue convenzioni madrigalistiche. La persona diventa musicalmente, addirittura uno strumento: è uno strumento al quale si affida un pezzo; diventa un solista dell’orchestra. Ed è affascinante oltre che attuale, la partecipazione corale, anche come espressione individuale. È un’altra forma di teatro. Insomma, mi attira il teatro totale, anche l’ambiguità teatrale. Un teatro dove l’attore non è solo individuo, ma anche coro e dove il coro può essere individuo. Tutto ciò con l’uso della parola, del gesto, del suono, dell’oggetto che acquista una sua fisionomia sempre significante. Penso che sia la maniera giusta di fare teatro, oggi». Un teatro corale in cui si possa narrare la nostra storia trascorsa, rapportata alla dolorosa realtà attuale. Esso si fonda su un tempo di ‘Festa’, di frantumazione del tempo storico che diviene metastorico: un momento non tangibile di azione teatrale, un contesto metateatrale, in cui l’elemento ‘Festa’ è percepito come rappresentazione di un quid che assume la forma di teatro laddove sono sempre presenti gli opposti e i doppi, e le figure e/o i personaggi assumono ruoli polisemici.

Nelle vesti di compositore, De Simone dà vita a una simbiosi tra musica popolare e musica colta; esperienza che lo accosta a Igor’ Stravinskij, Béla Bartòk, Carl Orff. Nelle composizioni si avvertono esplosioni/implosioni jazz, toni melodrammatici, atmosfere da kabarett, richiami e stilemi dell’opera buffa napoletana, polifonia rinascimentale, spunti madrigalistici, politonalismo, combinazioni inusuali di ritmi e sonorità dissonanti, dove colto e popolare appartengono allo stesso linguaggio artistico che si dipana e sviluppa secondo le esigenze del compositore.

Col suo talento crea una peculiare, raffinata e sfavillante ars combinatoria carica di infinite suggestioni e risonanze senza mai cadere in astrattezze ideologiche ed evitando le secche di un’archeologia musicale compositiva. Tra le composizioni si ricordano Requiem in memoria di Pier Paolo Pasolini, Stabat Mater, Festa Teatrale composta per il 250° anniversario del Teatro San Carlo, Carmina Vivianea, Cantata per Masaniello, Populorum Progressio, Alla Guainella (Intifada per Masaniello), Mistero e Processo di Giovanna d’Arco. In qualità di regista, inoltre, allestisce nei maggiori teatri lirici opere di Giuseppe Verdi (Macbeth, Falstaff, Nabucco che inaugura la stagione scaligera nell’’86), di Gioachino Rossini (La Cenerentola, L’italiana in Algeri, Ermione che è la prima ripresa scenica assoluta al Rossini Opera Festival di Pesaro nell’’87), di W. A. Mozart (Don Giovanni, Così fan tutte, Idomeneo, re di Creta, Il flauto magico che apre la stagione lirica del Teatro alla Scala nel ’95). Dal ’72 al ’76 insegna Storia della Musica all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Dal 1981 all’’87 è Direttore Artistico del Teatro San Carlo di Napoli. Dal ’95 al ’99 è Direttore del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli nominato per chiara fama.

Dal ’98 è Accademico di Santa Cecilia e successivamente è insignito dell’onorificenza ‘Chevalier de l’Ordre des Arts et des Lettres’ dal presidente della Repubblica francese. Nel 2019 riceve il titolo ‘Cavaliere di Gran Croce’ dal presidente Sergio Mattarella. Con l’oratorio drammatico Eleonora inaugura la stagione lirica 1999 del Teatro San Carlo, opera composta per il bicentenario della rivoluzione napoletana. Nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, nel giugno 2008 mette in scena Lo Vommaro a duello, mentre nel giugno 2010 presenta El Diego – concerto n° 10. Il 6 dicembre 2009 inaugura la prima stagione lirica nel ricostruito Teatro Petruzzelli di Bari con la Turandot di Giacomo Puccini. Nel gennaio 2011 per i 300 anni dalla nascita di Giovanni Battista Pergolesi inaugura la stagione lirica del Teatro San Carlo con Pergolesi in Olimpiade, una particolare e geniale riscrittura musicale dell’opera pergolesiana. Nel 2015 riceve il Premio Nonino Risit d’Aur e lo dedica a Pier Paolo Pasolini: «Figlio di questa terra friulana, grande uomo di cultura, poeta dei poveri. Quest’anno ricorrono quaranta anni dalla morte di Pasolini da quell’assassinio che ha voluto impedirgli di continuare a trasmettere il suo importante messaggio di cultura, di valori e di pace». Nello stesso anno al San Carlo presenta Stabat Mater da Giovanni Sebastiano a Giovanni Battista in memoria di Aylan Kurdi. Ancora qui nel 2020, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia, presenta Concerto tra scrittura e trascrittura per le vittime della pandemia. Tra le composizioni pubblicate si ricordano La gatta Cenerentola, Fontamara, Li Turchi viaggiano, Specula & Gemini, Bello cantare, L’Armonia Sperduta, Canti de la Dimenticanza.

Roberto De Simone sceglie costantemente Napoli non come ‘spazio chiuso’ in cui lavorare, ma come luogo simbolico dal valore universale. Da sempre denuncia le lobby clientelari e politiche pregne di ottusità e incultura che hanno imputridito Napoli e l’Italia eticamente, umanamente e intellettualmente. Ecco perché solleva la seguente e tuttora inevasa «Domanda: ma siamo sicuri che la cultura di massa non abbia già prodotto un subdolo, aggressivo virus che da due generazioni ha attaccato la cultura e l’arte svuotandole dei loro valori umani, storici, etici ed estetici? Il dramma dell’attacco al cuore dell’immaginario è già affiorato negli artisti all’inizio del Novecento, quando i giganti profetici della creatività da Stravinskij a Picasso, da Pirandello a Brecht, da Wedekind a Bartòk, da Wilde e Majakovskij, han gettato l’allarme sulla disumanizzazione prodotta dal capitalismo industriale. È avvenuto, insomma, ciò che annunciavano Stravinskij e Picasso quando vedevano, con raccapriccio in anticipo, il cadavere dell’opera d’arte come oggetto fossilizzato nelle stratificazioni d’una discarica. Ma non toccherebbe proprio agli artisti la ricerca di un vaccino poetico che isoli e debelli il delittuoso virus industriale?».

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