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Roberto Ciaccio, pittore aniconico sui sentieri di Heidegger

Roberto Ciaccio, pittore aniconico sui sentieri di HeideggerRoberto Ciaccio, «Memoria Acqua Rame A»

A Lugano, Museo delle culture Nella sua ricerca degli elementi germinali del linguaggio pittorico, Roberto Ciaccio definisce un’evocativa immagine mentale, che ha per modello l’ontologia del filosofo tedesco

Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 6 novembre 2022

Le due mostre dedicate a Roberto Ciaccio (1951-2014) – quella appena conclusa alla Galleria Building di Milano, Roberto Ciaccio. Soglie del tempo, a cura da Francesco Tedeschi, e l’altra, al Museo delle Culture di Lugano (fino al 26 febbraio), Roberto Ciaccio. Il dono dell’origine, curata da Silvia Ciaccio – consentono di tornare a parlare di un artista che come pochi altri è stato di vitale riferimento per filosofi, poeti e musicisti, che nelle sue opere hanno riconosciuto originali consonanze.

Il percorso intrapreso da Ciaccio, adesione assoluta alla linea aniconica, rivolta alla ricerca degli elementi germinali e fondativi del linguaggio pittorico, necessitava, infatti, per avere nutrimento e sostegno, dell’incontro con altri saperi. La filosofia, in particolare, ha svolto un ruolo essenziale, come attestano il sodalizio con Remo Bodei e gli incontri con Mario Perniola e Gianni Vattimo. «La straordinaria pregnanza visiva di un linguaggio», come lui stesso scrisse, si muoveva così verso il far «convenire immagini e parole a una possibile e necessaria coesistenza».

La ricerca di un linguaggio poetico, nel suo significato heideggeriano, segna la sua esigenza artistica, affinché l’indagine autoriflessiva giunga a definire quell’immagine mentale in grado di svelare, come per il filosofo tedesco, tutta la sua potenza evocativa e rimemorativa. Solo così è possibile «custodire il pensiero e la realtà stessa del pensiero nel corpo vivente dell’immagine».

La serie delle incisioni all’acquatinta del portfolio Annotazioni di luce in otto momenti per «Holzewege» di Martin Heidegger (1990-1992), esposte insieme alle lastre di zinco in apertura della mostra ticinese, rappresenta l’inizio di quella «monocromia apparente» che, nell’efficace definizione della curatrice, marcherà l’intero percorso artistico di Ciaccio.

Prima di allora, tra la fine degli anni sessanta e la metà dei novanta, come illustrato in catalogo da sua moglie Maria Pia, la sperimentazione di Ciaccio si rivolgeva, attraverso l’impiego di carte, legni, colle e lamiere, alla composizione di «quadri oggettuali» che, come scrisse Franco Passoni presentandoli nel 1975 alla Galleria Bonaparte di Milano, «focalizzano esperienze spaziali, percettive e cromatiche, rigorosamente essenzializzate».

Nell’opposizione di Interno/Esterno, generata sulle superfici dalle deformazioni dei materiali, Ciaccio esibiva per la prima volta la «dimensione nascosta», enigmatica e rivelatrice, che rinverrà nei doppi Figura/Sfondo, Presenza/Assenza, Luce/Oscurità delle opere che verranno dopo, a distanza di poco più di un decennio, a partire proprio dalle Otto annotazioni di luce.

Per tornare alle sale della Villa Malpensata è chiaro quanto il suo «errare», inteso come tensione volta alla scoperta della «verità» nell’arte, ossia «svelamento» (alétheia) o riflessione intorno al non-essere-nascosto dell’ente, è da intendere sempre nell’accezione del pensiero ontologico di Heidegger.
Già nelle sopra citate incisioni la «quasi-monocromia» è data dalle minime variazioni seriali della figura che in simbiosi con lo sfondo affiora mobile allo sguardo nel transitare latente tra il bianco (luce) e il nero (tenebra) del foglio.

Nella terza sala, tra le matrici delle lastre di ferro impregnate d’inchiostro e quelle in rame acidate e ossidate della serie Stazioni della Croce (2005-’06), Ciaccio ripresenta il conflitto tra «illuminazione» (Lichtung) e «nascondimento» della figura. L’artificio che concepisce non ha nulla di sacro. Con il tratto della croce affiorante sulla superficie egli intende provocare un ascolto pensante, lo stesso che il filosofo tedesco rinveniva nella poesia di Hölderlin: interrogazione ermeneutica oscillante tra silenzio e parola, annuncio e ascolto.

Come, infatti, la parola del poeta si lascia-essere senza doversi oggettivare, nell’«abbandono» (Gelassenheit) al puro gioco del non-detto che è il solo a preservare il Mistero dell’Essere, così Ciaccio, con i suoi monotipi, sceglie la via del gioco senza perché.

Se già questo lo distingue a sufficienza da altri artisti, in particolare gli astrattisti europei (Malevich, Albers) e statunitensi (Newman, Rothko), dai quali pure la sua pittura appare gemmata, è nel difficile esercizio dell’arte calcografica, svolto in stretto legame con lo stampatore milanese Giorgio Upiglio, che la sua ricerca artistica si differenzia con più forza.

È nelle lastre in ferro della serie Revenants, Suite Cariatidi (2010-’11), dalle superfici dense di velature sovrapposte di inchiostro di colore blu-viola, o in quelle in rame dal titolo Memoria dell’Acqua (2013), ossidate dal gocciolio dell’acqua come accadde nel ninfeo di Palazzo Nicolosio Lomellino a Genova in occasione di una sua mostra, che Ciaccio si fa autentico demiurgo, che rifugge la mimesis e sposa la tesi maleviciana: «il pittore può essere creatore soltanto quando le forme dei suoi quadri non hanno niente in comune con la natura».

Allora, se le guardiamo erette o lievemente inclinate come furono installate nell’imponente Sala delle Cariatidi a Milano nel 2011, non si può evitare di pensarle quali idoli arcaici riferendole a ciò che i Greci chiamavano kolossos. Fu Jean-Pierre Vernant a spiegare come nella società preellenica le pietre squadrate fissate a terra traducevano «in una forma visibile certe potenze dell’aldilà» appartenenti al «dominio dell’invisibile», in specie il mondo ultraterreno di un defunto.

Come il kolossos le lastre di Ciaccio indicano un «doppio» che rivela un’assenza e richiamano una «realtà esterna al soggetto che s’oppone allo scenario ordinario della vita» (Vernant). Come la pietra grezza dei primitivi riti funebri evoca nella forma aniconica l’assente, anche Ciaccio con le sue opere sembra suggerirci di dare ascolto all’assenza di ciò che giace profondo, inaccessibile, misterioso oltre l’universo umano.

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