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Roberto Cacciapaglia alla ricerca del suono

Roberto Cacciapaglia alla ricerca del suonoRoberto Cacciapaglia

Musica Il musicista, produttore e arrangiatore parla del suo nuovo lavoro discografico Alphabet

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 26 febbraio 2014

Gli esordi di Roberto Cacciapaglia sono folgoranti e premonitori di una magnifica carriera di compositore e musicista totale; capace di spaziare tra i generi e di affrontare ampie partiture destinate a orchestre come al teatro d’opera e musicale spesso minoritario se non negletto nei cartelloni nazionali. Nel 1972, giovanissimo, ancora studente di conservatorio, viene coinvolto in Pollution, concept – album di Franco Battiato. Qui, tra i primi in Italia, suona il sintetizzatore VC3 e affina la sua vocazione di sperimentatore di suoni. La scena jazz-prog italiana e europea gli è nota e affine. Dialoga alla pari con gli Area, Popol Vuh e Tangerine Dream. Allo stesso tempo non si lascia imbrigliare dal genere. Anzi, ogni suo nuovo lavoro, dagli album in studio alle opere nei teatri passando per i tanti concerti «in solo», segnano il passo ad innovazioni di stile e di strumentazione che tendono all’allargamento dei confini musicali. Spesso si ritrova ad anticipare tendenze future come nel pugno di raccolte registrate in poco più di un decennio dall’inizio degli anni novanta: dall’omaggio alle passioni adolescenziali e giovanili di Angels of Rock alla musica elettronica di Arcana, passando e superandosi per Tra cielo e terra, Incontri con l’anima e Quarto tempo. Quest’ultimo registrato con la Royal Philarmonic Orchestra. Mostra attenzione alle voci femminili producendo Gianna Nannini, Giuni Russo e Alice, ognuna di loro con percorsi il più delle volte originali. Dopo qualche lavoro per il cinema e l’aver fondato a Milano l’Educational Music Academy, singolare scuola che approccia giovani musicisti all’incrocio con le arti sceniche e drammaturgiche, ha pubblicato in questi giorni con la Decca, Alphabet.

Sin dall’inizio i titoli dei tuoi album sono stati sempre progettuali. Non fa eccezione l’ultimo. Dunque, perché Alphabet?

Mi ha sempre affascinato l’alfabeto. Le lettere soprattutto sono per me una forma di sorgente infinita. Poi, come si sa le note musicali tradotte in inglese si scrivono in lettere; e le avverto come legate allo spazio, mentre la battuta, quindi i numeri, al tempo. Se posso fare un esempio: è come il mare calmo, dall’alfabeto puoi partire. Ribadisco è la sorgente da cui nasce, anzi può nascere tutto. Mi sembra che nell’alfabeto convoglino tutte le lingue del mondo.

Il rischio Babele c’è, da cui può nascere anche la dannazione all’incomunicabilità.

Sì. Però non nella musica che, al contrario, consente di esprimere attraverso la composizione, quindi linguaggi musicali differenti gli uni dagli altri. Attenzione, ma non nella distruzione della loro forma. Anzi, lego la forma musicale al linguaggio, mentre la purezza del suono all’alfabeto.

Consideri, pertanto,il suono come espressione di un modo di comunicare?

Non smetto di riflettere sul suono e di come si maschera nel tempo. I suoni vestono le epoche, dettano mode e costumi delle società. Se ascolto un brano di Glenn Miller, non posso non andare agli anni ’30-’40, ai dancing del sabato sera e al divertimento di quei locali con le big band. Ma anche a come erano vestiti. E se entro in una discoteca degli anni 80, ascolterò suoni diversi e vedrò anche mode diverse da quarant’anni prima. Suoni che tendono verso il sociale che cambiano con il tempo, ma restano sempre legati alla società. Mentre se ascolto un canto devozionale di 1000 anni fa o una musica sacra in una chiesa d’oggi mi rendo conto che il trascorrere del tempo s’immobilizza nel luogo. Qui il suono è puro e tende ad essere sorgente. Si torna all’alfabeto.

Negli ultimi anni sempre di più prediligi suonare da solo. Tu e il pianoforte. E mi sembra che il tuo lavoro compositivo sia imprescindibile dallo strumento e dai suoi suoni come lo era quando sperimentavi con gli strumenti elettronici.

Ho sempre lavorato sul suono, indipendentemente dal suonare il pianoforte da solo o meno, che anche quando suono con un orchestra lo considero come «un leone nella foresta». Sono molto più attento alle vibrazione del corpo attraverso i miei gesti. Il dito che tocca i tasti che muovono le corde e i suoni che si producono e propagano nell’aria. Compressioni e dilatazioni che se arrivano alle persone, ai loro timpani, procurano vibrazioni emozionali. Emozione è il sentimento che provo di più oggi. Pratico lo yoga del pianoforte. Mentre, per la musica elettronica la costruzione dei suoni definisce un’architettura nello spazio. In tali contesti però resta sempre una traccia rilevante di melodia, che mi lega alle nostre tradizioni musicali del melodramma e della canzone popolare napoletana. E miei ascolti d’oggi variano da Bach, Haendel e Pergolesi; musica brasiliana, i raga di Ravi Shankar e molta musica sufi.

Da come parli sembra che tu agisca da pittore…

È la definizione giusta. Lavoro nel mio atelier ed uso la tecnologia come fosse una tavolozza d’artista. La materialità dei vinili, dei nastri che giravano, segnavano l’orologio del tempo che ora non c’è più. Questa ritengo sia l’occasione da cogliere.

 

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