Nel 1902, poco più che ventenne, Robert Walser si chiedeva perché gli impiegati fossero «così di rado i protagonisti di una novella». A dispetto dei luoghi comuni, l’attività svolta nel grigiore degli uffici gli appariva qualcosa di esemplare. La penna di un impiegato sapeva essere «appuntita, precisa e crudele». Era in grado di «inventare al volo costrutti che potrebbero suscitare la meraviglia di molti eruditi professori», se solo non fosse che simili creazioni subito si perdevano tra mille scartoffie. Ma proprio per questo motivo, che vietava qualsiasi orgoglio, «gli impiegati avrebbero potuto essere presi a modello da scrittori e poeti immodesti»: il loro umile contegno non era forse assai «più nobile e ricco» della smania di essere famosi, comune a tanti artisti?

Simili considerazioni riecheggiano spesso nell’opera di Walser, che non solo a più riprese rappresentò la vita di piccoli scrivani e commessi, ma soprattutto seppe intrepretare con impiegatizia sobrietà il proprio ruolo di autore. Come osserva Canetti, c’è in Walser una «profonda e istintiva avversione verso tutto ciò che ha un rango e pretese».

Invenzioni minime
Di questa tendenza ci dà un meraviglioso esempio L’assistente, da tempo non più disponibile, ciò che basterebbe a salutare festosamente questa nuova edizione (Adelphi «Biblioteca», pp. 238, € 19,00); ma in più Cesare De Marchi ci restituisce con la sua traduzione la complessità del romanzo, la cui splendida superficie narrativa si increspa in modo quasi impercettibile e tuttavia insistente e inquietante. Pubblicato nel 1908, il testo rielabora le concrete esperienze dell’autore pochi anni prima, in una cittadina sulle rive del lago di Zurigo, quando per qualche mese fu al servizio di Carl Dubler, un ingegnere meccanico che invano cercava di fare fortuna con improbabili brevetti e invenzioni. Lo stesso Walser ricorda che per scrivere il romanzo non ebbe bisogno di inventare quasi nulla. Nel rielaborare con realistico nitore un episodio ben circoscritto, L’assistente potrebbe apparire a un primo sguardo un’opera più convenzionale rispetto agli altri romanzi scritti dall’autore nel volgere di quegli anni, e cioè I Fratelli Tanner (1907) e Jakob von Gunten (1909). E di certo anche per questo fu uno dei primi testi di Walser a rendersi accessibile al lettore italiano, nella traduzione di Ervino Pocar che Einaudi pubblicò nel 1961.

Joseph Marti, il giovane che un giorno d’estate, di buon mattino, si presenta presso la villa del signor Tobler per proporsi come assistente proviene dagli «angoli bui, silenziosi, meschini della grande città». Abbandonata la speranza che un «cielo rosseggiante» possa un giorno rischiarare l’intera umanità, liberandola dall’ingiustizia, il protagonista appare fin da principio animato dal desiderio di servire. Quasi che davanti a un ciclopico potere non resti se non dissimulare ogni rivendicazione e la propria stessa personalità. Il carattere inconsueto o addirittura scandaloso di questa attitudine, a fronte di una modernità che ancora vagheggiava il vitalistico dispiegarsi dell’individuo, non passò inosservato all’uscita del romanzo: in un’anonima recensione per il «Times Literary Supplement», il testo venne letto in primo luogo come il superamento dell’«atroce egoismo» che, a partire da Nietzsche, avrebbe trovato diffusione nella narrativa tedesca della Jahrhundertwende. Veniva così inaugurata una linea interpretativa che avrebbe voluto vedere in Walser l’interprete di una «volontà di impotenza» programmaticamente opposta al magniloquio di Zarathustra e dei suoi epigoni. Ma l’eroe di Walser è figura più complessa.

Non è nemmeno necessario richiamare alla mente la dialettica tra servo e padrone per comprendere come nel suo atteggiamento non vi sia solo disinteressata abnegazione, ma un tentativo di salvezza personale. Proprio la subordinazione garantisce inizialmente al protagonista la distanza necessaria all’esercizio della critica, che si tratti della «troppa superbia» con cui si muove la padrona di casa o della personalità «piuttosto ampollosa» del suo datore di lavoro, contrapponendo all’una e all’altro l’umile piacere dello scrivano soddisfatto per «la facilità con cui padroneggiava l’intero stile commerciale» o per la «pregnanza del proprio stile epistolare». Nel servizio c’è insomma la ricerca di una paradossale sovranità, che pure non si traduce mai in aperta protesta.

Se al centro dell’opera di Walser c’è un radicale rifiuto del potere, come osservò Susan Sontag, ciò non passa per la ribellione, ma attraverso una ostentata obbedienza. Solo così, negando ogni resistenza e ogni possibile appiglio, poteva essere possibile svuotare di senso l’esercizio del dominio. Di qui, tra l’altro, una differenza rispetto a Bartleby, a cui pure i personaggi di Walser possono essere accostati, e di qui una possibile affinità con le strategie che il soldato Švejk impiegherà davanti agli orrori della guerra, portando fino all’assurdo la propria sottomissione alle gerarchie militari.

Nel corso del romanzo, la stessa opposizione tra servo e padrone, con tutte le sue dialettiche potenzialità, va progressivamente sfumando, man mano che le sorti dell’impresa padronale volgono al peggio e l’anno inclina verso la fine. Il lavoro di Joseph consiste allora nel tentativo di liberare il principale dall’assedio dei creditori, o nel prestare compagnia alla moglie che si trova a essere ormai «poco considerata, poco benvoluta» dalla società del luogo. Il declino dei padroni provoca in Joseph sentimenti sempre più intensi nei loro confronti. Il suo datore di lavoro non era d’altronde stato «un semplice impiegato», che solo una improvvida eredità aveva spinto a «rendersi indipendente»? Se in principio Joseph «compativa Tobler, lo disprezzava e aveva paura di lui», col passare del tempo si scopre intento ad amare «con tutto il cuore quell’individuo». Ancor più evidente è la sua inclinazione per la signora Tobler, in un rapporto sempre più assiduo e a suo modo pervaso di erotismo, senza che ne nasca una rivalità con il marito.
Fedele all’idea del «servire», il protagonista prende piuttosto a prestito i modelli dell’amor cortese («Joseph, il vassallo») o addirittura immagina una sorta di femminile solidarietà nel pazientare davanti alle intemperanze dell’ingegnere.

L’ultimo sguardo
Nel mezzo dello sfacelo Joseph abbandona infine il ruolo di obbediente osservatore, e cerca di intervenire nella vita familiare, denunciando i maltrattamenti di cui è vittima una delle bambine. Gli viene allora spiegato che la «vita sociale sottostà alle stesse regole della vita domestica»; in entrambe, evidentemente, dominano l’ingiustizia e l’angoscia. A Joseph non resta che cercare di nascondersi altrove, scendere verso le rive del lago e prendere commiato, voltandosi per l’ultima