Robert Walser, il mondo come oggetto di meravigliata attenzione
Come affrontare il flusso delle sensazioni che nella modernità si susseguono violente, volatili, incoerenti? Nei saggi di Baudelaire è possibile riconoscere al riguardo due opposti atteggiamenti, paradigmatici per le generazioni a venire. Da un lato il gesto altero dell’esteta, del «dandy» che «aspira all’impassibilità» e anticipa così in forme estreme la postura blasé dell’abitante della metropoli che ha già visto tutto. Dall’altro l’artista con animo da «convalescente», che «possiede in sommo grado la facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle in apparenza più banali», e simile a un fanciullo «vede tutto in forma di novità».
Proprio questa seconda attitudine trova impareggiabile espressione nelle prose composte da Robert Walser durante i primi decenni del Novecento. In un testo del 1907, per metà riflessione poetologica e per metà autoritratto, Walser stesso descrive lo scrittore come un «eroe in penombra», desideroso di «immedesimarsi in ogni fenomeno». Sgomento nel vedere quante «cose effimere e fuggitive volino via nel mondo, senza che si possa fissarle sulla carta», lo scrittore prova allora di continuo, anche a prezzo del proprio equilibrio, a salvare con le parole ciò che altrimenti «viene sommerso nel flusso della vita».
Di questo sforzo, della sua riuscita, si trovano molti splendidi esempi nel volume Una cena elegante (traduzione di Aloisio Rendi, con una nota di Ginevra Bompiani, Quodlibet «Storie», pp. 155, € 14,00).
La felice traduzione, datata 1961, gode meritatamente di una prolungata giovinezza, grazie a una casa editrice che d’altronde reca omaggio a Walser già nel logo, e ora lo accoglie in una sua nuova collana. Il libro si compone di alcune prose pubblicate dall’autore negli Aufsätze (Saggi, 1913) e nelle Kleine Dichtungen (Poemetti, 1914). A dispetto dei titoli originali, la differenza più grande tra le due raccolte riguarda le circostanze che ne accompagnarono la pubblicazione. Nel breve tempo che le separa si consumò una svolta decisiva nella vita di Walser, quando abbandonò definitivamente Berlino per fare ritorno in Svizzera. In ogni caso non si ci si deve lasciare confondere da quei titoli: chi cercasse la meditazione saggistica o le preziosità del poemetto in prosa resterà inizialmente deluso. Ma poi non potrà che essere tanto più incantato da queste brevi prose (ritrovandosi così in ottima compagnia, in una schiera di ammiratori che riunisce Kafka e Coetzee, Musil e Sebald, Canetti e Ben Lerner).
Sono miniature, schizzi, lettere immaginarie, frammenti narrativi o fiabeschi, in cui gli eventi vengono registrati con appassionata accuratezza e sottratti alla loro apparente banalità. Che si tratti dell’ovazione in una sala teatrale, quando dalla galleria «buia e riboccante cadono come scrosci di grandine gli applausi» (quasi inevitabile, allora, pensare a una breve prosa di Kafka, In galleria), o che ci si ritrovi dinnanzi a un «cavallo bianco nella notte nera», fermo con maestosa mestizia in mezzo all’andirivieni di passanti e vetture, o che risuoni lungo la via la risata di due bambine capaci di «dissolversi e consumarsi dalle risa»: ovunque il mondo diviene oggetto di meravigliata e meravigliosa attenzione.
Pure, Walser, non si dilunga mai più del dovuto sui singoli fenomeni e il suo infallibile senso della misura, come suggerisce Ginevra Bompiani nella nota che conclude il libro, discende anche da una sorta di «smemoratezza». Le sue prose lasciano tracce evanescenti, quasi che, a ritrarre con cura, fin nel loro carattere effimero, le cose, ogni frase abbia «il compito di far dimenticare la precedente». Così sosteneva Walter Benjamin, paragonando i testi di Walser a «farfalle di speranza».
Lievi e sfuggenti, esse consentono al lettore di respirare «l’aria pura e forte della vita che guarisce» e gli offrono un godimento non privo di tratti enigmatici o inquietanti. Poiché «nessuno gode come colui che sta guarendo»: appunto come un convalescente che ha dietro di sé l’abisso e davanti a sé il mondo intero.
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