Visioni

Robert Plant oltre il mito rock

Robert Plant oltre il mito rockRobert Plant

Note sparse Esce «Carry Fire» l’undicesimo album dell’artista britannico accompagnato dai The Sensational Space Shifters. Undici brani dove il blues si aggancia a suoni etnici e alla psichedelia pura

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 18 ottobre 2017

Per il poeta russo Iosif Brodskij, la memoria ha in comune con l’arte la tendenza a selezionare il gusto e la necessità del dettaglio, in un rapporto sempre fecondo fra concezione estetica e funzione sociale. Per Robert Plant questa similitudine sembra incarnarsi, nuovamente alla perfezione, nell’attesissimo album Carry Fire, uscito il 13 ottobre, che, fin dal titolo della prima traccia The May Queen, rievoca «quei giorni» dove cantò della Regina di Maggio, per la prima volta insieme ai suoi Led Zeppelin, nella leggendaria Stairway to Heaven.

Sarebbe riduttivo però, per non dire disonesto, banalizzare il lavoro di Plant a mera rievocazione nostalgico/storica anche perché, dallo scioglimento del gruppo nel 1980, il cantante è stato l’unico, insieme a qualche folgorante ma sporadico episodio a opera del bassista/tastierista John Paul Jones, a cercare traiettorie lontane dalla mitologia rock da lui stesso creata. «Accusato» da alcuni di forgiare un sound affascinante privo però della solidità e della «quadratura» delle melodie di una volta, Plant e la sua band, i The Sensational Space Shifters, continuano a percorrere musicalmente le strade del precedente, il bellissimo Lullaby and…the Ceaseless Roar, combinando strumenti tribali a synth, il blues americano alla musica marocchina, ri-arrangiando addirittura, quasi in versione psichedelica e con la complicità di Chrissie Hynde, il classico Bluebirds Over the Mountain del 1958.

Nelle undici tracce del disco, le liriche di Plant sembrano a tratti voler leggere il presente (la «pacifista» Carving Up The World Against A Wall And Not A Fence è un feroce attacco alle dittature militari e alle cosiddette missioni di pace), ma poi si lasciano andare, come di consuetudine, al ricordo dell’Oriente, del folklore e delle leggende.

La title track  infatti, richiama Prometeo, simbolo di ribellione ma, al tempo stesso, archetipo di un sapere sciolto dai vincoli del Mito e dell’ideologia, ma il ricorso alle narrazioni epiche è necessario non soltanto per tratteggiare immaginari perduti ma, soprattutto, per la ricchezza linguistica che esse tramandano, senza dimenticarne la natura sociale senza tempo e dunque contemporanea.

Carry Fire così non è che l’ultima coordinata di un viaggio dove il sentimento della meraviglia acustica prevale sulle «presunte» necessità della composizione. L’album si incarna dunque in tappeto sonoro, in una tela che riproduce musicalmente le sensazioni del colore, la Storia di popoli antichi, la manifattura di strumenti artigianali dove pigmenti di canzoni passate diventano affreschi musicali del presente fino a un mistico superamento di ogni distinzione fra il soggetto-cantante e colui che ascolta.

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