Robert Greene, l’altro sguardo sulla non fiction
Intervista Con «Actress» - nella retrospettiva proposta dalla Film Society of Lincoln Center - il regista sovrappone il melodramma con la vita vera della protagonista, fino a diventare indistinguibili
Intervista Con «Actress» - nella retrospettiva proposta dalla Film Society of Lincoln Center - il regista sovrappone il melodramma con la vita vera della protagonista, fino a diventare indistinguibili
Dopo aver avuto un ruolo regolare nella serie The Wire, l’attrice Brandy Burre decide di ritirarsi per accudire i suoi tre bambini e vive un quotidiano di casalinga in un paesino a nord di New York. È l’esile canovaccio su cui si sviluppa Actress, l’ultimo documentario del regista (ma è anche direttore della fotografia e montatore dei suoi film) Robert Greene, e il film di chiusura del programma Art of The Real di cui scriviamo qui accanto. Ipnotico ibrido di cinema del reale e fiammeggiante melodramma, in cui l’osservazione della vita di Burre e la fabbricazione di un personaggio «Brandy» si sovrappongono fino a diventare indistinguibili, come i due film precedenti di Greene, lavora su una nozione spuria, contaminata del documentario. Ne abbiamo parlato con il regista che ha una rubrica dedicata a quella che lui chiama «unfiction» sulla rivista Sight and Sound.
Quando scrivi delle nuove tendenze deldocumentario americano parli di un «cinema ibrido», «unclean», sporco.
Per ma la non pulizia è il nodo della relazione tra il film e il pubblico. Molti documentaristi sono ossessionati dall’idea di dover trasferire delle informazioni al pubblico, perché «la storia è così importante» e quindi non si può interferire con nessun tipo di artificio, o di arte. Io la penso diversamente: un regista non è un semplice tubo di connessione tra il soggetto e l’audience. Con Actress c’erano momenti in cui non volevo che lo spettatore sapesse se quello che guardava era realtà o una ricostruzione drammatica. Domande come «ma non credi di star sfruttando negativamente il tuo soggetto?…non mi spaventano. Anzi. Il problema è che al cinema di fiction è permesso di essere trasgressivo in un modo che il documentario non può permettersi. E io non vorrei che fosse così.
Fin da «Kati With an I», passando per «Fake It So Real», l’idea della performance, delle recitazione, è al centro dei tuoi film. «Actress» sembra il punto d’arrivo di quella ricerca…
Secondo me, la macchina da presa è il modo migliore per catturare le nostre bugie, la recitazione di noi stessi. Quando Eric Kohn, su «Indiewire», ha scritto che Kati, la protagonista del mio primo film, aveva dato una delle migliori performance dell’anno ha fatto centro. Per quanto riguarda Fake It So Real, avevo sempre voluto fare un film sui wrestling – su come chi lo pratica stia cercando di sovrapporre un personaggio alla sua identità. Introdurre una macchina da presa in quella dinamica creava un livello ulteriore di rappresentazione. Ma invece di cercare di decostruire l’artificio ho cercato di sottolinearlo. Il che non significa creare distanza nei confronti dei personaggi. Alla fine, infatti, il film funziona se tu vuoi veramente che i protagonisti vincano. Actress riguarda cosa succede quando osservi un attore – sta recitando o no? Il personaggio e la sua performance diventano tutt’uno. Quindi, in un certo senso tutti i miei film esplorano l’idea stessa del documentario.
Come hai lavorato con Brandy Burre?
All’inizio non voleva fare il film. Credo anche perché stava cercando di nascondere quello che emerge nella storia..Una volta iniziato, quando la sua situazione ha cominciato ad essere veramente complicata, il film è diventato un rifugio, un luogo dove poteva elaborare delle idee su ciò che stava succedendo nella sua vita. Cosa significa essere un’attrice, una madre… Come molti attori, Brandy ha un rapporto d’amore con l’obbiettivo. Subito era una seccatura e dopo un po’ ne aveva bisogno. Actress è il personale coming out nel melodramma della sua vita. Conta che io non avevo idea di cosa stesse succedendo tra lei e il suo compagno. Non mi aspettavo che si separassero, ma sapevo che le cose tra lei e Tim non andavano bene.. Quindi non è stato sorprendente scoprire che lei avesse un altro rapporto. Quando è saltato fuori –nella scena in cui dice che forse è più facile avere della fantasie su una persona che non è il tuo compagno- ho avuto un momento di esitazione: non stavo mica facendo un reality sull’infedeltà. Ma alla fine siamo riusciti a far rientrare quell’elemento nella sua trasformazione. E quando Tim se ne va e stacca i suoi manifesti dal muro. È stato un momento molto triste. Ma sembrava giusto filmarlo.
Cassavetes, ma anche il melodramma americano anni cinquanta sembrano forti influenze per te…
Cassavetes è stato fondamentale. Ho dato a Brandy parecchi dei suoi film, a partire da Love Streams e Opening Night. Con Cassavetes c’erano anche delle similitudini strutturali: giravo sostanzialmente a casa mia, con degli adulti, un film su temi adulti.. Non a caso la hard drive su cui ho montato Actress si chiamava Love streams. In quel finale Cassavetes arriva a un livello di teatralità melodrammatica che non aveva mai toccato prima, e che per me era un punto di riferimento. Il melodramma hollywoodiano anni cinquanta è un cinema che conosco bene. Amo Sirk ,non ho avuto nemmeno bisogno di riguardarlo. Ma non volevo che i riferimenti fossero troppo espliciti. Per me la qualità sirkiana doveva emergere dalla texture.
Sundance è stata una delle grandi forze dietro al boom del documentario americano, da quasi vent’anni a questa parte. Ma quella promossa dal festival e dal laboratorio è una nozione riduttiva del cinema di non fiction, incentrata sullo sfondo politico/sociale, trattato secondo un taglio giornalistico televisivo
È un tipo di documentario che ha un suo ruolo – entro dieci anni Sea World non esisterà più grazie a Blackfish. Il rapporto di mia madre con il cibo è cambiato (in meglio) dopo che ha visto Food Inc. Ma proprio Blackfish ha esposto anche certi limiti di questo tipo di cinema e di come anche il documentario con le migliori intenzioni possa essere cattivo giornalismo: le accuse che Sea World ha rivolto ai filmmakers – di aver usato certe cose fuori contesto per provocare delle reazioni emotive nel pubblico – non erano infondate…Perché succede che il documentario a sfondo politico sociale, per raggiungere un’audience maggiore, senta il bisogno di ricorrere a una dimensione sensazionalistica. Paradossalmente, infatti, certe volte, questo cinema a soggetto socio/politico diventa «evasione» più ancora della stessa fiction, perché ti risucchia completamente nel suo mondo.
Hai scritto che il 2013 è stato un anno di svolta per il documentario americano. Perché?
È l’anno in cui due film ambiziosi come The Act of Killing e Leviathan hanno avuto successo nei circuiti art house. Hanno provato che esiste un pubblico per documentari diversi. E io spero che Actress faccia la stessa cosa. Perché anche la non fiction ha un suo ruolo nel cosiddetto cinema d’arte. Oggi esiste un’audience che, magari perché ha visto Godard o un po’ di cinema europeo, può capirlo. Il film esce a giugno ma non sai quante donne sono venute a dirmi, dopo le proiezioni ai festival, di essersi riconosciute in Brandy.
Cosa ti piace invece del cinema hollywoodiano contemporaneo?
Le commedie, Apatow in particolare. Ma oggi moltissime commedie sono interessanti. E mi è piaciuto Noah. La sua ambizione. È il primo film che prova che la Bibbia è un po’ come Il signore degli anelli.
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