Visioni

Robert Glasper, «il jazz e i dialetti della black music»

Robert Glasper, «il jazz e i dialetti della black music»Robert Glasper live a Torino, 22 aprile 2016 – foto di Giorgio Violino

Intervista Il pianista texano rivisita il repertorio Columbia di Miles Davis nell’album «Everything’s beautiful», in uscita il 27 maggio. Tra gli ospiti Stevie Wonder, Erykah Badu e Bilal

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 aprile 2016

Quell’anno il protagonista indiscusso fu Miles. Salì sul palco del festival jazz di Newport con il suo sestetto – c’erano Gerry Mulligan e Zoot Sims ai sassofoni e Thelonious Monk al pianoforte – e suonò una musica incredibile. Era luglio del 1955 e quel pubblico impazzì. Tra la folla, nelle prime file, c’era anche George Avakian, produttore della Columbia che testimoniava il miglior jazz in circolazione. Quasi un’ora di concerto, alla fine del quale Avakian avvicinò Miles. Il matrimonio tra la Columbia e il trombettista dell’Illinois è durato per tre quarti della vita artistica di quest’ultimo, lasciando un’orma indelebile sull’arte afroamericana del secolo passato.

Bisogna rievocare quegli anni per entrare nell’ottica di Everything’s Beautiful, il nuovo album del pianista Robert Glasper in uscita il 27 maggio. Con una sostanziosa porzione del catalogo Columbia di Davis si è confrontato Glasper, pianista nero e famoso, forse il quarantenne più blasonato nel jazz contemporaneo, che ha potuto scegliere liberamente da quell’opera omnia (inclusi passaggi inediti, scarti e gli involontari appunti vocali di Miles) per costruire la base dell’ album. Un lavoro creato, come spesso fa Glasper, con l’aiuto prezioso di altri musicisti, più o meno importanti, più o meno appartenenti al suo mondo di riferimento.

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«È importante potermi confrontare con altri artisti, perché altrimenti diventa una competizione col pianoforte e questo non mi è mai piaciuto. Aggiungere voci e musicisti che arrivano da altri percorsi è molto stimolanti». Proprio in questa terra di mezzo dove il jazz si scorda le regole e flirta più intensamente con l’r&b, Glasper ha eretto il suo castello, e i due album Black Radio (2012 e 2013, entrambi per Blue Note, un progetto portato dal vivo in Italia in questi giorni con due tappe a Roma e poi al Torino Jazz Festival) sono le colonne portanti della sua modalità. Non c’è dubbio: è il musicista migliore per creare musica nuova a partire dai dischi perfetti di Miles. «Molti produttori moderni non hanno una vera conoscenza del jazz, io ce l’ho e ho anche quella dell’hip hop. Sono più in linea io con Miles rispetto a qualsiasi altro perché il mio percorso per molti versi è simile al suo: vengo dal jazz ma faccio anche altri generi, così come era per lui».

A qualificare il lavoro del pianista c’è la grana dei collaboratori coinvolti in Everything’s Beautiful. Da Stevie Wonder («Lo avevo già incontrato due o tre volte, gli confidai tutto il mio amore per la sua musica e una volta ho anche avuto l’onore di suonare Superstition al piano insieme a lui») a Erykah Badu, passando per alcune rivelazioni del presente – gli australiani Hiatus Kayiote, freschi di nomina ai Grammy – e per qualche potenziale fenomeno futuro: c’è il trio al femminile KING, per il quale anche il compianto Prince impazzì subito portandolo con sé in tour. E poi Bilal, il raffinato vocalist di Philadelphia al quale Glasper non rinuncia quasi mai, forse perché come lui è capace di cambiare registro con rara disinvoltura.

Pare ci sia solo Miles nella testa di Glasper in questi ultimi mesi. Sta marcando profondamente gli ultimi suoi passi. A lui Don Cheadle ha affidato la musica che colora le immagini di Miles Ahead, il biopic su Davis. Proprio con Don, Glasper ha discusso a lungo prima di comporre (e ricomporre) le musiche. «Don ha molto talento per la musica, aveva fin dall’inizio le idee chiare. Ne abbiamo parlato, c’era davvero tanto materiale a disposizione, la parte veramente difficile è stata scegliere come utilizzarlo per valorizzare le scene del film».

La popolarità di Glasper aumenta nonostante i detrattori, quasi tutti puristi del jazz. «Ci sono artisti che producono album per un unico scopo, e cioè per piacere a quelli che ascoltano jazz. Io l’ho già fatto, i miei primi dischi (Mood, Canvas, In My Element, ndr) erano di quel tipo. Adesso voglio fare musica per più persone, ecco perché credo davvero in quello che faccio». Motivo valido per posticipare i ragionamenti più audaci e le incisioni più impopolari. Il piano solo ad esempio, che potrebbe mettere alle strette i suoi detrattori. Se valgono ancora le percentuali indicate da Miles secondo il quale il venti per cento è responsabilità delle note e il resto lo fa l’attitudine del figlio di puttana che le suona, Glasper ha la stoffa per durare cent’anni, perché meglio di altri ha studiato i dialetti della black music. Nato in Texas ma cresciuto a New York frequentando il jazz di Terence Blanchard e Roy Hargrove almeno quanto il neo soul e l’hip hop di Q-Tip e Mos Def, ha una visione d’insieme, conosce e pratica il self-branding. «Ogni cosa deve essere pensata nella giusta maniera. La musica è la mia carriera e anche il mio business, inutile negarlo».

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