Visioni

Robert Evans, il ribelle di Hollywood

Robert Evans, il ribelle di HollywoodRobert Evans negli anni '70

Cinema Beverly Hills 2003: un’intervista al leggendario produttore recentemente scomparso. Successi del calibro de «Il Padrino» e «Love Story» accanto a magnifici flop come «The Cotton Club»

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 10 novembre 2019

Bob Evans è stato uno dei pochi a cui Billy Friedkin mi ha chiesto di parlare per un libro che ho dedicato al suo cinema nel 2003. Quando sono arrivata a Woodland, la tenuta del produttore, a Beverly Hills, resa mitica dal film tratto dall’autobiografia di Evans, The Kid Stays in The Picture, il viale d’accesso era allagato e pieno di pompe. L’aria puzzolente di fumo. Abbiamo avuto un incendio, mi ha detto il maggiordomo, con nonchalance. La pool house – cuore creativo e della social life della grande residenza- era stata distrutta dalle fiamme. Forse è meglio che torni un’altra volta, ho suggerito. Ma il pranzo era già stato preparato, e Evans – abbronzatissimo e filiforme, in pigiama di seta crea, vestaglia di cashmere amaranto, mocassini senza calze e cappellino da baseball- mi ha raggiunta poco dopo, all’estremità di un tavolo enorme; preparato solo per me. È il giorno peggiore della mia vita, ho balbettato quando mi sono accorta di aver dimenticato la cassetta del registratore. No. Il mio. Mi è bruciata la casa, ha detto lui, senza battere ciglio. L’intervista qui sotto è uno stralcio delle lunghissima conversazione su Friedkin che abbiamo avuto quel pomeriggio – tra la sala da pranzo e la stanza da letto – copriletto di visone e un bagno tappezzato di fotografie di Helmut Newton- dove passava la maggior parte delle sue giornate dopo l’ictus del 1998 che, mi spiegò, lo aveva costretto a limitare drasticamente «le tre S in cui sta il senso della vita: sole, sport e sesso». Chinatown, Love Story, Il Padrino, Rosemary’s Baby, Il grinta e The Italian Job sono solo alcuni dei grandi titoli prodotti dalla Paramount sotto il regime di Evans. Quando ne uscì, per diventare produttore indipendente, fu responsabile di altri successi come Il maratonet,  Popeye e di insuccessi magnifici come The Cotton Club, Jade e Il grande inganno. Al suo attivo anche sette matrimoni, la parte di Irving Thalberg in L’uomo dai mille volti (fu la moglie di Thalberg, e figlia di Louis B. Mayer, Norma Shaerer, a scoprirlo), una condanna per traffico di cocaina e il coinvolgimento in un processo per omicidio avvenuto dietro alle quinte della produzione di Cotton Club. Con la morte di Evans non se ne è andata solo una fetta del folklore di Hollywood. Ma una parte insostituibile del suo Dna. La Paramount aveva dissolto il suo contratto con la Robert Evans Productions (in vigore dal 1974) il luglio scorso.

Come e quando ha conosciuto Billy Friedkin?

Negli anni Settanta, quando è arrivato a Los Angeles. Allora dirigevo la Paramount. Mettemmo su insieme la Director’s Company, che fu un fallimento. C’erano Billy, Francis Coppola e Bogdanovich. È stata sfortuna: abbiamo fatto delle scelte sbagliate. Non fu un successo. Nel 1993, feci Jade con Billy. Non andò bene – era un gran film, il migliore che ho prodotto negli anni Novanta. Sfortunatamente in America ne tagliarono 12 minuti. Sono sempre stato un grande ammiratore di Billy. Sono due i registi con cui lavorerei sempre– e ho lavorato con più di 300 – Billy e Roman, o Roman e Billy!

Vede qualche somiglianza?

Sì, nell’arroganza. Nell’aspirazione alla perfezione. Nel non tollerare la mediocrità. Billy licenzierebbe chiunque nel bel mezzo del film se pensa che non funzioni. È uno che rischia tutto, anche il posto – non esita, o tiene i piedi in troppe scarpe. Se nella vita privata fosse così perfezionista come in quella professionale, sarebbe un misto fra Cary Grant, Tyrone Power e Tom Cruise impacchettati tre in uno. È uno che non ammette stupidaggini, è molto difficile lavorare con lui. Stiamo in un’industria che accetta la mediocrità. Lui vuole «migliorità». In questo modo fa saltare la mosca al naso a un sacco di gente. Ma si guadagna il rispetto assoluto delle persone di talento.

Una scena da Il padrino

Quando dirigeva la Paramount, all’inizio degli anni Settanta, stavano uscendo film come The French Connection, Il Padrino, Rosemary’s Baby… era un periodo emozionante per lei e la generazione dei giovani registi.

La chiamavano la seconda età dell’oro di Hollywood. Billy era uno dei ribelli, come me. Non stavamo alle regole. Sceglievamo in nome delle nostre emozioni e delle nostre convinzioni. E ne abbiamo subito le conseguenze. In modi diversi, ma l’abbiamo pagata cara. Non abbiamo mai detto sì quando pensavamo no. È molto importante nella vita. Tanti dicono sì ma pensano il contrario – perché hanno paura di perdere. Io ho in me un po’ di magia, e Billy è fatto allo stesso modo. E la ricchezza… sono i soldi che la fanno? La ricchezza vera è lasciare quell’impronta.

Il David Selznick Award, l’Oscar alla carriera che ha ricevuto quest’anno, deve essere stato un grande riconoscimento per lei. Selznick era uno dei suoi idoli.

Selznick era il mio eroe. Era contagioso. È morto al verde però.

Nel suo libro -parlando del ruolo del produttore – ha scritto che «a un regista serve un dio e non un tirapiedi».

E anche «Preferisco il boia ai tirapiedi». È un libro di citazioni…

Stavo pensando… un regista di forte personalità come Friedkin e un produttore di forte personalità come lei come hanno fatto a lavorare insieme?

È che io non avevo paura di ribattere. Vede, un regista è così preso da quello che sta facendo che di tanto in tanto perde di obiettività, ma un regista veramente bravo accetta le critiche di un produttore che rispetta. Solo che oggi i produttori sono così pochi… ci sono affaristi, avvocati, agenti, venditori di pacchetti… Arrivano sul set, si fanno fotografare e se ne vanno via. Non guardano il film, non guardano i giornalieri. Non conoscono gli attori. Io ero un attore che non voleva nessuno, un ballerino… Ho fatto l’attore alla radio, alla televisione, ho interpretato Dorian Gray in televisione, al cinema. Sono stato a capo di uno studio. Ho fatto il produttore. E adesso … cartoni animati.

Una scena da Chinatown

Cartoni animati?

Stanno realizzando una sit-com animata sulla mia vita, si intitola Kid Notorious, la Comedy Central la sta producendo con lo sceneggiatore e il produttore che avevano fatto The Kid Stays in the Picture, Brett Morgen.

Sta anche lavorando alla seconda parte del suo libro…

Si intitola The Fat Lady Sang. Perché io sono morto… Ho avuto un ictus, stavo per morire. A quel punto ho sentito cantare Ella Fitzgerald e ho visto una luce bianca. E ho pensato di essere morto sul serio. Invece mi sono svegliato. Ero a letto, ma ero anche paralizzato. Mi ci sono voluti tre anni per riprendermi.

Come diceva prima, eravate dei ribelli…

Perché remavamo controcorrente. Non cercavamo un lavoro qualsiasi. Lasciai la mia posizione ai vertici della Paramount perché desideravo una maggiore autonomia…. Billy è uguale. Siamo finiti col culo per terra più di una volta per aver infranto le regole. Io le ho infrante proprio tutte. Così facendo, puoi sfiorare la magia, ma anche finire col culo per terra. E, quando io cado, cado sul culo, di brutto. Ho pagato, spesso e caro.

C’era alla cerimonia degli Oscar che Friedkin produsse nel 1977. Quella con Norman Mailer e Muhammed Alì?

No, non sono mai andato agli Oscar. Li odio. Mi fu offerto di produrre la cerimonia, una volta. Ma l’unico modo in cui l’avrei fatto è … con una grande palla di vetro. Tutti avrebbero avuto la cravatta bianca. E ogni star avrebbe scelto un biglietto, dalla palla, senza sapere cosa aspettarsi… altrimenti è tutta politica. Mi sarebbe piaciuto, per esempio, che Clint Eastwood si fosse trovato ad annunciare gli Oscar per i costumi… è così che l’avrei fatto. Anche Billy ha cercato di fare le cose a modo suo. L’Academy è così antiquata. Devi seguire le regole, puntualmente, ed è un lavoro meccanico. Per fare gli Oscar prendi gente che conosce un sacco di gente, che ha un fare amichevole e che ha un mucchio di amici. E, in tutta franchezza, né Billy né io siamo persone mondane. Io non esco mai di casa. È per questo che l’effetto dell’incendio di ieri è così devastante. Per trentatré anni ho concluso affari in quella stanza. C’era una storia tra quelle pareti… di cui non ha idea. In quel luogo, sono stati conclusi più affari – legali e illegali – che negli uffici della Paramount. Billy e io ci siamo seduti là mille volte, abbiamo analizzato mille sceneggiature. Abbiamo litigato – no, non litigato… io la chiamo irriverenza. Le farò un esempio: ho prodotto due film contemporaneamente, Il grande Gatsby e Chinatown. Gatsby l’aveva scritto Francis Coppola e nessuno avrebbe mai cambiato una virgola. Geniale! Geniale! Era un onore essere nel film eccetera. In Chinatown, c’erano più litigi dietro le quinte che davanti alla macchina da presa. Irriverenza totale, non ci si parlava l’un l’altro, c’erano risse continue. Chinatown è risultato un buon film, mentre Gatsby è arrivato e se ne andato senza che nessuno facesse «bah». È l’irriverenza che fa funzionare un film, non la riverenza. Preferisco fare un film con Billy che con Steven Spielberg. Gente come lui e Lucas magari sono andati a scuola e hanno menti brillanti. Ma ce l’hanno quel nonsochè?

Una scena da The Cotton Club

In questo senso, secondo lei, la Hollywood di oggi è troppo tenera per lui?

No, è troppo commerciale. Cercano il successo dell’anno scorso…Fanno sequel su sequel. Quando sento che si fa un sequel mi viene il delirium tremens. Proprio stamattina mi hanno offerto due milioni di dollari – mi vergogno a raccontarlo – per un remake di Love Story. Piuttosto venderei la casa e andrei a fare lo spazzino. L’ho fatta franca una volta. Ha funzionato ma non funzionerà mai più. Quanto poco creativi riescono a essere! Passano il giorno in riunione e se ne vengono fuori con una cosa così?

State preparando un film insieme?

Si intitola Power, è la storia di Sidney Korshak. Korshack il padrino dei padrini. Non c’è mai stato nessuno come lui – un misto di Cary Grant e John Wayne. Ma era uno che schiacciando un bottone avrebbe potuto chiudere la Borsa. Sarebbe bastata una sua telefonata per spegnere le luci di New York. Era l’uomo più potente d’America.…È morto ma nessuno sa dove sia il suo corpo. Lo conoscevo molto bene e Billy lo conosceva dai tempi di Chicago. Era il mio «padrino». Vedo il film come l’inizio e, allo stesso tempo, la fine di Il Padrino perché Korshak rappresentava il massimo del potere nella totale legalità. Il che non significa che tutto quello che faceva fosse… come dire… Cresciuto sulle strade di Chicago, gli amici e i familiari lo avevano soprannominato «Schtumer», che nel dialetto yiddish significa «Il silenzioso». Ma non c’era ringhiare al mondo che incutesse più paura o rispetto del silenzio dello Schtumer. Non ha mai posseduto una carta di credito, né ha firmato un assegno, ma la tasca dei suoi pantaloni era sempre gonfia di banconote. A vent’anni Korshak era uno dei principali consiglieri di Al Capone. Nei primi anni ‘50 rappresentava già più di venti società alla borsa di New York. Era un mafioso? No. Era un avvocato. Era disonesto? Dubito che abbia mai preso una multa per divieto di sosta. Billy mi ha tormentato per anni per fare il film: Il vero Padrino». La storia definitiva del potere: «Non posso farlo senza di te, Evans… Sei l’unico al mondo a possedere «le chiavi che aprono tutte le serrature…». Billy non ha torto. Ma sa che sarei disposto a beccarmi una pallottola, pur di impedire a certe basse insinuazioni di raggiungere il grande schermo.

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