Alias Domenica

Robert Burton, malinconia riottosa e indigesta

Robert Burton, malinconia riottosa e indigestaLucas Cranach il Vecchio, Melancholia, 1532, Colmar, Unterlindenmuseum

Seicento inglese Nei «Millenni» Einaudi traduzione integrale e commento per l’Anatomia della malinconia di Robert Burton (1577-1640): Stefania D’Agata D’Ottavi ci guida nell’esplorazione, sorprendente

Pubblicato più di un anno faEdizione del 16 aprile 2023

«The Anatomy of Melancholy – Il più bel titolo mai trovato» dichiarava Cioran: «Che cosa importa poi che il libro sia più o meno indigesto!». Per seicento anni (599 a esser pignoli: il trattato di Robert Burton essendo apparso nel 1621, in una prima edizione più breve – ma pur sempre immane – della sesta, postuma, del 1651) noi qui in Italia ci siamo tenuti leggeri, piluccando da due traduzioni parziali: della Malinconia d’amore (Rizzoli 1981) e del proemio, «Democrito junior al lettore» (Anatomia della malinconia, a cura di Jean Starobinski, Marsilio 1994). Ora, nel giro di neanche tre anni, eccone ben due integrali, condotte evidentemente per un bel tratto di strada in simultanea, prima al traguardo la traduzione di Luca Manini per i «Classici della letteratura europea» Bompiani, agosto 2020 (qui recensita a suo tempo), adesso a fine corsa anche quella di Stefania D’Agata D’Ottavi per i «Millenni» Einaudi (due vv. in cofanetto, pp. CCLVI-1868, euro 160,00) – un’impresa tanto più lodevole perché, vistasi superata, la D’Ottavi non può non esser stata còlta da una di quelle «fitte di malinconia» di cui diceva Keats (nella sua Ode on Melancholy), eppure non s’è persa d’animo…
Si tratta di due lavori splendidi, per certi aspetti quasi interscambiabili (il testo di riferimento è sempre l’edizione Oxford in sei volumi, 1989-2000, da cui tutt’e due derivano anche la maggior parte delle note), per altri piuttosto diversi: la Bompiani – un unico tomo (con testo inglese a fronte!) di 3000 e passa pagine così sottili che spesso sfogliandole se ne girano due o tre alla volta – un’opera direi soprattutto di consultazione; i due «Millenni», in carta forte e forse a tiratura limitata, corredati da un sontuoso apparato iconografico, libri – anche a causa del prezzo – quasi esclusivamente da collezione (almeno per ora: poi chissà che non siano ristampati senza illustrazioni negli «ET Biblioteca», come altri «Millenni», ad es. lo Zohar o i Viaggi di Ibn Battuta).
Conviene non spazientirsi per la lunghezza dell’introduzione assai erudita di Stefania D’Agata D’Ottavi: circa 170 pagine che, se da un lato, sono giustamente proporzionate all’ipertrofia dell’Anatomy, dall’altro costituiscono una guida utilissima alla sua lettura, o esplorazione che sia. Per dirla contra Cioran: nei limiti del possibile, la D’Ottavi ha digerito per noi tutto il libro, e il suo saggio ci conduce con polso fermo attraverso le tre ripartizioni (e svariate sezioni, componenti e sottosezioni) secondo le quali Robert Burton (1577-1640) – un ecclesiastico che passò tutta la sua vita a Oxford tra i libri – s’adoperò in solitudine per dar forma quasi finita a un materiale tanto riottosamente infinito: dalla «teoria» della malinconia alle sue «terapie» alla descrizione dettagliata della «malinconia d’amore» (di cui la «malinconia religiosa» costituisce solo un’ultima sezione).
Aprendo poi il libro a caso, le sorprese sono sempre dietro l’angolo. Chi l’aveva mai sentito – ad esempio di «come contrastare l’insorgere della malattia» d’amore – che «Petrarca, che aveva tanto esaltato Laura in varie poesie, quando per intercessione del Papa gli venne offerta, rifiutò di accoglierla» (p. 1230)? E infatti una nota conferma che «non è chiaro dove Burton abbia preso questa curiosa informazione». Di certo è apocrifa (benché sia improbabile che Burton l’abbia inventata di sana pianta), come un’altra storiella nei paraggi, sempre attribuita al Petrarca: quella «di un giovane damerino, che amava una fanciulla con un occhio solo, e per quel motivo i genitori lo mandarono a fare un viaggio in paesi lontani, ‘dopo qualche anno egli tornò e, incontrando la fanciulla a causa della quale era stato mandato fuori, le chiese in che modo avesse perso l’occhio? No, disse lei, io non ne ho perso nessuno, sei tu che hai trovato i tuoi’: intendendo dire che tutti gli innamorati sono ciechi» (p. 1233).
Ma trovare aneddoti gustosi nelle pagine della «malinconia d’amore» è fin troppo facile. Il bello è che si trovano dappertutto. Ad esempio, eccone un paio tratti dalla sottosezione dedicata alla funzione terapeutica dell’amicizia in certi casi di folle fissazione (ed è giusto ricordare, a proposito di amicizia, che Burton amava i Saggi di Montaigne, conosciuti nella traduzione di John Florio, 1603). Il primo è la storiella di quel «signore di Siena, in Italia, che aveva paura di fare la pipì per timore di inondare tutta la città; il medico fece suonare le campane al contrario e gli disse che la città era in fiamme, al che egli fece la pipì e guarì immediatamente» (p. 845). E, di seguito, quella del «malinconico che pensava d’esser morto»: Petrus Forestus, il celebre medico olandese, «mise un tizio in una bara, come se fosse morto, presso il letto del paziente, lo fece sollevare un poco e lo fece mangiare: il malinconico chiese all’uomo travestito se i morti mangiano e quello gli disse di sì, al che mangiò anche lui e guarì» (p. 845). Che storia impagabile! Possibile che la conoscesse anche il duca di Saint-Simon? Il quale, nei Mémoires, ne racconta da par suo una molto simile. Di quando Monsieur le Prince, tormentato da febbre e gotta, si era messo in mente d’essere già morto, quindi si rifiutasse di ingerire cibo: al che Finot, il suo medico, si era dovuto inventare che certi morti anche da morti mangiavano e, avendo prezzolato gente di sua fiducia, ma sconosciuta a Monsieur, per maggior verisimiglianza si sedeva a tavola con loro: «poi moriva dal ridere a contarci (…) i discorsi dell’altro mondo che si tenevano a quei pasti»!
Qualche osservazione, infine, a proposito dell’apparato iconografico d’alta qualità che, secondo la tradizione dei «Millenni», arricchisce i volumi. È bellissimo – ma, mi chiedo, si è seguito qualche criterio nella scelta delle immagini, o sono puramente suggestive, quasi solo decorative? Oltre al frontespizio della terza edizione dell’Anatomy e all’imprescindibile Melancholia di Dürer, riprodotti in antiporta rispettivamente al primo e al secondo volume, ci sono ventiquattro illustrazioni a colori, dodici a tomo. Si va da una Musa Polimnia in marmo pario del II secolo (la sua riproduzione fotografica è un’opera d’arte in sé) all’acquaforte di Georg Baselitz, Melancholie, vier Rosen, 1999: quasi duemila anni d’iconografia, ma solo sette opere precedenti o contemporanee a Robert Burton, le altre per lo più otto-novecentesche (solo due dipinti, Melanconia di Étienne-Maurice Falconet e Dolore di Louis-Claude Vassé, sono del Settecento: il secolo meno malinconico, l’unico, significativamente, che non ha visto ristampe dell’Anatomy). E poi, sarà anche vero che Malinconia è una dea: She dwells with BeautyBeauty that must die, scriveva Keats (la cui copia annotata del secondo volume dell’Anatomy, il solo che si sia conservato, è uno dei pezzi forti della sua casa-museo a Hampstead). Eppure i malinconici di cui tratta Burton sono spesso, forse soprattutto, di sesso maschile. Possibile che a richiamarli si sia trovato solo il Doppio ritratto di due giovani (1502 ca.) del Giorgione e, forse, il busto piuttosto androgino che campeggia nella Melanconia ermetica (1919) di De Chirico?
Sono riflessioni frivole, lo so: ma un’opera come l’Anatomy of Melancholy la frivolezza non la bandisce, anzi… Forse si sarebbe potuta riprodurre almeno una pagina della sua edizione novecentesca più celebre, quella della Nonesuch Press (1925), con le illustrazioni di Edward McKnight Kauffer (1890-1954), che quanto a frivolezza non scherzano (ne ho scritto recensendo l’edizione Bompiani su «Alias-D», 15 novembre 2020). E forse avremmo potuto rinunciare, se pur a malincuore, a qualcosa di già molto visto (Munch? Hopper?) per una riproduzione a doppia pagina di Say Goodbye, il grande dipinto cui Cy Twombly (1928-2011) lavorò, nel suo studio romano, per ventidue anni, dal ’72 al ’94: nella prima fase di questa paziente elaborazione, l’opera (ora nella Menil Collection a Houston, Texas) era intitolata proprio Anatomy of Melancholy (le parole si leggono ancora, scarabocchiate sul pannello a sinistra di chi guarda), poi – confondendo due versi del malinconico Keats – On the Mists of Idleness, e solo ben più tardi ricevette il titolo attuale – un titolo che, probabilmente, a Cioran farebbe storcere il naso.

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