Realtà e credibilità del mondo dipendono in gran parte dal fatto che siamo circondati da cose più durature rispetto all’attività con cui sono state prodotte. Di questo si occupa Robert Bevan, già autore nel 2006 di un saggio sulla valenza politica della distruzione architettonica, The Destruction of Memory: Architecture at War, giornalista, membro dell’ICOMOS e del Blue Shield, ente per la protezione del patrimonio culturale a rischio. Nel suo nuovo lavoro, Monumental Lies Culture Wars and the Truth about the Past (Verso, pp. 384, £ 20,00), Bevan discute le distorsioni ideologiche della verità storica operate intervenendo sui monumenti, ovvero sugli elementi dell’ambiente costruito – statuaria, architettura, urbanistica – che rappresentano la traccia materiale di precedenti modi del pensiero. Questi costituiscono il terreno sul quale si combattono le guerre culturali, conflitti in cui il passato viene continuamente riscritto da individui o da gruppi interessati a imporre una particolare visione ideologica sullo spazio fisico. Opporsi a tale manipolazione è difficile, per via di una diffusa mentalità che alla storia e ai fatti antepone il ricordo e l’emotività, rendendo evanescente il confine tra realtà e finzione.

L’autore evita opportunamente di incentrare il suo discorso su un’opposizione radicale tra conservazione e distruzione, glorificazione e iconoclastia, e invita a riflettere sul simbolismo e sull’impatto culturale dei monumenti. Soprattutto suggerisce di non lasciarsi irretire da forme puramente esteriori di amore per il passato: il patrimonio è infatti per sua natura sempre esposto a risignificazioni campanilistiche, nostalgiche, sentimentali o di marketing.

Il libro è prodigo nel proporre esempi controversi di monumenti che sono o sono stati motivo di frizioni. Bevan cita spesso il caso del grande fregio littorio di Bolzano, Il trionfo del fascismo, opera di Hans Piffrader (1888-1950), ed è particolarmente dettagliato sul contesto anglosassone. In Inghilterra, la prima statua eretta a onore di un cittadino comune è probabilmente quella di Robert Clayton (1629-1707), filantropo ma implicato nella tratta degli schiavi come pure il «virtuoso e saggio» Edward Colston (1636-1721), ritenuto responsabile della deportazione di circa 84.000 africani. Il monumento a Colston, già in un parco pubblico di Bristol, fu abbattuto durante una protesta anti-razzismo nel 2020. Eretta nel XIX secolo, la statua era un’icona voluta dall’élite locale in risposta ai movimenti sindacali e socialisti.

Negli USA, tra XIX e XX secolo, furono spesso innalzati monumenti per celebrare il mito della Lost Cause, una simbolica rivincita dei confederati per connotare lo spazio in senso razziale. Si tratta di un gigantesco programma di «bugie monumentali», paragonabile forse solo allo sfruttamento staliniano dell’immagine di Lenin in Unione Sovietica.
Sempre a cavallo tra XIX e XX secolo, la Francia vide apparire nelle proprie strade una folla di statue: più di 170 nella sola Parigi. Molti monumenti commemoravano figure associate alla Rivoluzione francese, benché il richiamo alla vicenda rivoluzionaria mascherasse il più delle volte le imprese coloniali della Terza Repubblica. L’invasione non passò inosservata: Degas suggerì di recintare i parchi per impedire agli scultori di deporre i loro lavori sui prati come escrementi di cane.
Riguardo alle attuali interpretazioni populiste e reazionarie, Bevan è inflessibile. Nel 2021 Boris Johnson e il suo governo spingevano per emanare pene detentive più severe per il danneggiamento di una statua che non per uno stupro. «Non si può correggere o censurare il nostro passato. Non si può fingere di avere una storia diversa. Sono state le generazioni precedenti a innalzare le statue nelle nostre città. Avevano altre concezioni di ciò che è giusto e sbagliato. Eppure quelle statue raccontano il nostro passato, con tutti i suoi difetti. Abbatterle significherebbe mentire sulla nostra storia». Bevan ribatte che la menzogna sta piuttosto nel predicare una relatività dei valori morali che, sebbene in apparenza avversi il revisionismo, in realtà glissa sulla verità storica dello schiavismo e del colonialismo, e in definitiva mira a comprimere la libertà d’espressione nel nome di un frainteso rispetto del patrimonio.

Parimenti, l’autore biasima le assurdità dei progressisti. «Allo stesso tempo, però, bisogna guardarsi da chi, a sinistra, nega che i monumenti siano parte della storia e spinge per la cancellazione totale del paesaggio commemorativo esistente. Si sbagliano. Perché, nonostante il cinismo, l’ipocrisia e la censura di Stato, i monumenti aiutano a capire il passato. Sono davvero dati storici. Attribuire loro un significato non è semplice. E i miti e gli equivoci circa l’impatto delle statue sulle nostre esistenze e sulla società, circa la natura delle passate ondate iconoclaste e le conseguenze che le rimozioni hanno sulla storia, sono forse perfino più pervasivi, contorti e subdoli delle ragioni che hanno portato alla creazione di quei monumenti». La testimonianza di un atto esecrabile può comunque essere d’insegnamento; non conservare è un azzardo da soppesare attentamente.

Forse bisognerebbe lasciare che i monumenti cadano in rovina e svaniscano. Bevan ricorda l’antica consuetudine greca, riportata da Polibio e Plutarco, di erigere sui campi di battaglia trofei in legno anziché in pietra, di modo che durassero l’arco di una generazione e non restassero immagini perenni di ostilità. Perfino i bolscevichi, almeno in un primo momento, si preoccuparono dei monumenti. Alberto Boime sostiene che Lenin, nel decreto per la propaganda del 1918, auspicasse opere effimere, in legno e intonaco, che non sopravvivessero al loro messaggio propagandistico.

Nella sua requisitoria, Bevan critica anche l’UNESCO e l’annovera tra i gatekeepers, cioè l’identifica come una di quelle figure-chiave nella definizione di una ortodossia basata su norme indiscusse, e troppo spesso formata da individui appartenenti alla stessa classe sociale di chi eresse i monumenti. Nello specifico, rimarca l’eccessiva disinvoltura nelle pratiche di replica digitale e ricostruzione.

Per quanto utopico sembri il traguardo dell’obiettività, bisogna tentare di avvicinarsi il più possibile. In un’era tormentata da false notizie e improvvise amnesie, il riscontro di un’onesta testimonianza monumentale è più importante che mai. Tuttavia, sottolinea Bevan, la salvaguardia dei simboli del passato non va mai disgiunta dall’impegno per un concreto cambiamento del mondo reale presente.