Riyadh: «L’intervento in Siria? Finale e irreversibile»
Medio Oriente Mentre a Monaco si parla di cessate il fuoco, l'Arabia Saudita si dice pronta ad intervenire. Probabilmente accanto alla Turchia che vuole impedire l'unità della kurda Rojava
Medio Oriente Mentre a Monaco si parla di cessate il fuoco, l'Arabia Saudita si dice pronta ad intervenire. Probabilmente accanto alla Turchia che vuole impedire l'unità della kurda Rojava
La decisione di schierare le truppe in Siria è «finale e irreversibile». Le parole del generale Al-Asseri, capo della coalizione a guida saudita in Yemen, aprono alla guerra: l’Arabia saudita è «pronta» a combattere il terrorismo in Siria.
Dietro alle intenzioni saudite c’è ovviamente una preda molto più ambita dell’Isis. Ci sono il presidente Assad e le sue rinnovate fortune, frutto dell’alleanza militare con la Russia e della (per ora) vincente controffensiva su Aleppo. Di questo Riyadh ha discusso con la Turchia: le scorse settimane hanno visto un rafforzamento della collaborazione militare tra i due paesi, che potrebbe tradursi in un intervento congiunto. Delle brame belliche dei Saud si è discusso ieri a Monaco, durante l’incontro del Syria Support Group, 17 paesi coinvolti nella crisi siriana e che si sono visti per tentare di rianimare il moribondo negoziato Onu.
Se nei giorni scorsi la Casa Bianca ha salutato con favore la proposta saudita (il segretario alla Difesa Carter si è detto d’accordo con l’eventuale contributo), secondo fonti diplomatiche Londra e Washington starebbero valutando l’opzione messa sul tavolo dalla Turchia: la creazione di una “safe zone” dentro il territorio siriano al confine turco dove inviare i soldati del fronte anti-Assad.
Se quei stivali dovessero poggiarsi sul terreno, non solo si decreterebbe la morte definitiva del dialogo, ma si aprirebbero scenari di guerra regionali potenzialmente distruttivi: lo scontro diretto tra asse sunnita e asse sciita, non più una guerra per procura ma un conflitto aperto tra Golfo e Turchia da una parte e Damasco, Iran e Hezbollah dall’altra. Sullo sfondo, lo storico confronto tra Nato e Russia.
A poco vale la descrizione che Carter dà dell’eventuale ruolo del Golfo: «Gli Usa lavorano con forze di terra in Siria per combattere l’Isis e separare Raqqa da Mosul. Includere le truppe del Golfo è una buona cosa». Ma Damasco è stata chiara: il dispiegamento di soldati sauditi sarà considerato atto di guerra. Si aprirebbero le porte dell’inferno per la popolazione schiacciata tra due fronti che dimenticano l’Isis.
Situazione ancora peggiore se sul campo di battaglia si palesassero anche truppe turche, a cui l’Isis interessa poco. Molto di più interessa la testa di Assad e la fine del progetto confederale kurdo. Ieri, come un drappo rosso agitato sotto il naso del presidente Erdogan, i kurdi di Rojava hanno ripreso la base militare di Mannagh, nella provincia di Aleppo, lungo la frontiera con la Turchia. Una conquista strategica per le Ypg, che rende più concreta la creazione di un’entità kurda al confine e che stringe l’assedio su Aleppo, ormai circondata da truppe governative e Ypg.
Per questo Ankara insiste sul mantra della “safe zone” che Washington non ha mai voluto concedere e che la Russia contrasta in ogni modo. È Mosca, forte delle vittorie militari archiviate, a vestirsi da mediatore: ieri il ministro degli Esteri Lavrov ha detto di aver presentato alla controparte statunitense una proposta di cessate il fuoco specifica e di essere in attesa di una risposta. Si partirebbe dal primo marzo, data che non piace agli Usa: tre settimane sono troppe, perché permetterebbero a Mosca di schiacciare le opposizioni ad Aleppo. Nella serata di ieri, l’agenzia russa Tass riportava fonti diplomatiche secondo le quali si sarebbe giunti ad un accordo su una tregua a partire dal 15 febbraio.
Un obiettivo fondamentale, soprattutto alla luce dei dati del Centro siriano per la ricerca politica: dal 2011 i morti non sarebbero 250mila come stimato dall’Onu, ma il doppio, 470mila.
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