In uno dei suoi ultimi saggi pubblicati in vita, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia (Einaudi, 2022), Bruno Latour aveva proposto di ripensare il pianeta terra semplicemente come Terra, il nome proprio in grado di designare «tutti gli esistenti che hanno un’aria di famiglia perché hanno un’origine comune». La proposta di Latour si ricollega all’idea di Gaia come organismo che si autoregola elaborata da James Lovelock e ha il merito di farci cogliere l’importanza e l’urgenza di un pensiero che abbia la forza di muoversi sul piano cosmologico per provare a rispondere alla sfida dell’antropocene.

CHE COSA SIGNIFICA MUOVERSI SUL PIANO cosmologico? Significa abbandonare l’illusione che un ecologismo politico, che pensa e opera nella cornice simbolica di questo mondo, nell’ambito di quel costrutto culturale che chiamiamo «pianeta terra», possa ancora produrre effetti di trasformazione reali. Siamo oggi di fronte a un’impotenza politica dell’ecologismo di cui sono un sintomo evidente posizioni come quella espressa da Andreas Malm che in Come far saltare un oleodotto (Ponte alle Grazie, 2021) invoca un passaggio all’atto.

QUESTO NON VUOL DIRE ABBANDONARE la politica per rifugiarsi nel lavoro teorico, ma ripensarla in un orizzonte inedito, al di là dei limiti dello spazio dei viventi umani dotati di logos, a partire da una trasformazione radicale dell’idea di mondo e di vita nel mondo. Il mondo come pianeta terra, come costrutto culturale a misura di viventi umani che si definiscono sulla base dell’appartenenza territoriale, non può più essere considerato la cornice neutra dell’agire politico: il mondo è oggi il cuore del problema. Negli ultimi vent’anni si è parlato molto di biopolitica, concentrandosi sui dispositivi di potere che agiscono direttamente sulla nuda vita dei viventi umani. Ora, proprio a partire dall’idea di bios che in greco antico, quando definisce una «forma di vita», vale per i viventi umani, per gli animali e anche per le piante, occorre rompere con lo spazio del politico come spazio dei viventi umani dotati di logos per muoversi nel campo della biosfera e del ripensamento dello spazio in cui vive la vita tutta e che chiamiamo «pianeta terra».

SI TRATTA DI USCIRE DAGLI ANGUSTI limiti dell’antropo-geocentrismo per pensare tutt’altro mondo. L’idea di cambiare il mondo va assunta, in altri termini, in tutta la sua radicalità. La rivoluzione torna là dove aveva cominciato il suo corso: non limitata allo spazio del politico, ma elevata a quello cosmologico o, se si preferisce, cosmopolitico.

QUESTO CAMBIAMENTO NON E’ UNA ipotesi da elaborare a tavolino. È un processo in corso la cui importanza è stata colta in vari ambiti del pensiero. Ho citato Lovelock e Latour ma si potrebbe citare Emanuele Coccia che nel suo bellissimo libro La vita delle piante (il Mulino, 2018) propone di ripensare il mondo sul «modello» del mare. Qualcosa accade e occorre rispondere, come diceva Derrida. E tuttavia, queste risposte al cambiamento in corso, pur importanti, restano a mio avviso ancora cosmologicamente timide, vale a dire terrestri, troppo terrestri. Con Gaia, Terra, terra pensata sul «modello» del mare, ci teniamo ancora al riparo da un processo in corso che la geografia, l’oceanografia, la biologia, la scienza della spazio hanno colto e che oggi si tratta di pensare nella sua dimensione «rivoluzionaria»: il divenire Oceano del pianeta Terra.

TUTTO HA AVUTO INIZIO NEL MOMENTO in cui, per la prima volta, il pianeta che abusivamente definiamo «nostro» ha visto la propria immagine allo specchio. È il 1972, l’equipaggio dell’Apollo 17 è in viaggio verso la Luna. Un membro dell’equipaggio scatta una foto che ritrae una faccia del pianeta interamente illuminata dal Sole. Si tratta della fotografia più importante della storia dell’umanità perché immortala la «scoperta» del pianeta Terra; e la scoperta è un vero e proprio trauma: il pianeta «Terra» è un pianeta blu, un Blue Marble («biglia blu») come verrà battezzata la fotografia che sradica l’immagine del pianeta dalla dimensione del suolo stabile, fisso, immobile sotto i nostri piedi (il filosofo tedesco Husserl aveva scritto nel 1934 «la Terra non si muove») per consegnarla alla fluidità di Oceano, la cui centralità nella regolazione del clima e nella vita del nostro pianeta è unanimemente riconosciuta. Non a caso la NASA chiama oggi il pianeta terra Ocean World. Ne è consapevole anche quella scienza che, fin dal nome, si richiama alla terra, la geografia, che ha conosciuto una vera e propria svolta oceanica. In apertura del volume Water Worlds. Human Geographies of the Ocean (Routledge, 2014) Jon Anderson e Kimberley Peters dichiarano: «Il nostro mondo è un mondo d’acqua». Non siamo di fronte e iperboli o metafore. E non si tratta di pensare il mondo sul «modello» del mare. Bensì di pensare che il mondo in cui vivono le molteplici forme di vita è materialmente un mondo d’acqua, un mondo Oceano in cui siamo letteralmente immersi e da cui siamo attraversati nel cuore della «nostra» carne. Perché tutti i viventi sono carne oceanica che scorre attraverso di essi legandoli in un sistema simbiotico. Tutte le forme di vita che abitano il pianeta vivono immerse nell’idrosfera oceanica. Come scrive Alok Jha nel suo Il libro dell’acqua (Bollati Boringhieri, 2016): «L’idrosfera collega in modo profondamente simbiotico il corpo fisico della terra e tutta la vita che la abita. Anzi dal punto di vista della biologia gli oceani sono la Terra».

È TEMPO DI RIPENSARE L’IDEA DI VITA e di pianeta a partire da Oceano, al di là dei limiti del pianeta terra e di tutte le politiche radicate nel suo suolo. Oceano è il mondo ripensato in una dimensione di flusso e divenire al di là del binarismo gerarchico terra-mare su cui si basano il nostro linguaggio e il nostro apparato concettuale terrestri, a partire dall’idea di uomo. Se il pianeta Terra è un pianeta nostro, a misura d’uomo e del suo potere sovrano, il pianeta Oceano è un pianeta flusso inappropriato, «ingovernabile» per usare una formula di Melville, aperto alla simbiosi di tutte le forme di vita.

SI TRATTA DI UN PENSIERO ASSOLUTAMENTE attuale e al contempo profondamente antico, di cui si trova traccia nei filosofi Presocratici ma ancora prima in Omero e nelle antiche cosmologie assiro-babilonese ed egizia. Che cos’è infatti il fiume Okeanós, «genesi di tutto» e che, al contempo, avvolge tutto, se non l’idrosfera oceanica? È questa la tesi di Aristotele che nei Meteorologica spiega come il fiume Okeanós scorra dal mare al cielo per tornare al mare. Oceano è la realtà tutta come divenire fluviale di cui parlava Eraclito. Come mostra chiaramente Platone, infatti, quando Eraclito parla del fiume del divenire ha in mente la cosmologia oceanica di Omero. Lo sapeva bene Nietzsche che in La filosofia nell’epoca tragica dei Greci presenta Eraclito come pensatore del mare-divenire: «Eraclito grida: Non vedo null’altro che divenire. Non fatevi ingannare. Dipende dalla vostra vista corta, e non già dell’essenza delle cose, il fatto che voi crediate di scorgere da qualche parte una terraferma, nel mare del nascere e del perire.