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Rivoluzione, la politica dei senza nome

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SAGGI «Democrazia e anarchia» di Donatella Di Cesare per Einaudi. La filosofa sarà a «Libri Come» il 23 marzo, alle ore 16, in colloquio con Marco Filoni

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 21 marzo 2024

La democrazia è diventata un’etichetta trita e ovvia, parola irrigidita e opaca, eretta a monumento della storia discendente dal mito di Atene. Separata dal suo contenuto, la democrazia è l’oggetto di un’ingegneria costituzionale, ridotta a competizione elettorale o amministrativa, associata a una qualità morale degli «occidentali» nello scontro contro regimi e despoti, spesso espressioni dello stesso emisfero.

SEPARATA DALLA SUA FORZA – il kratos che forma con il demos (il popolo) la Demokratía – questa democrazia è tutt’al più il vestito della governabilità, il crisma attribuito a un potere autoreferenziale. È usata come attributo, del mercato ad esempio. Un ossimoro poiché un mercato è concorrenziale, non democratico.
Al problema attuale di una democrazia senza politica, e di un conflitto che dovrebbe essere la base di una democrazia ma che oggi sembra essere privato di forza insorgente, Donatella Di Cesare ha dedicato il suo ultimo libro Democrazia e anarchia. Il potere nella polis (Einaudi, pp. 275, euro 22). Dallo scavo nella storia di un concetto tutt’altro che pacificato emerge l’immagine di una democrazia incline all’anarchia e connessa all’idea di rivoluzione.

CRITICA DELLA SUA RIDUZIONE al liberalismo, una famiglia di teorie politiche che tendono a spoliticizzare la democrazia, come alla sua definizione costituzionale, per l’autrice è anarchica la democrazia che dà voce a una potenza che irrompe e travolge un potere insediato. Questo conflitto è immanente alla democrazia, è una relazione conflittuale tra un potere che diventa dominio e una forza che divide e libera.
Esiste un’antica figura della democrazia greca che traduce questa condizione di tensione permanente: è la stasis e, nonostante l’apparente sinonimia con la stasi, indica lo spettro della sedizione, il fantasma della divisione interna, la sollevazione senza leader né capi all’insegna dell’uguaglianza e della libertà. Figura analizzata nella filosofia politica contemporanea, da Nicole Loraux a Giorgio Agamben per esempio, la stasis non è tradotta da Di Cesare come una guerra civile, né è ridotta a un esempio dello «stato di eccezione».
Stasis è invece interpretata come una rivoluzione che nasce dalla rottura con l’arché, un concetto filosofico che significa sia potere di imporre un inizio che autorità che comanda. An-archico, cioè senza arché significa farla finita con una divisione dei poteri, dei ruoli e delle gerarchie familiari, nazionali, produttive e riproduttive. Rivoluzione è dunque l’esercizio di una forza collettiva che fa decadere la potenza unificante della sovranità, smembra il popolo e la sua fittizia unità e aspira a costituire un altro popolo nel conflitto.

La filosofa rivolge a questo punto la sua attenzione di anarcheologista alla contraddizione della democrazia e al suo soggetto, cioè il demos. Il popolo non mantiene coesione e compattezza. Rivendica un potere che in fondo lo divide. Se è anarchica, la democrazia rifiuta ogni potere. Ma senza un potere esercitato democraticamente non esiste democrazia.
Questa contraddizione non ha nulla di enigmatico. La democrazia è il suo prodotto. Ciò permette di evitare di sostanzializzare il soggetto della democrazia, cioè il popolo, in un tutto già dato, o in una maggioranza fissata una volta per sempre. Il «potere del popolo» non ha, a parere di Di Cesare, un’identità pre-esistente, si ricompone di continuo e cerca di dare voce a chi non ha voce, né titoli per governare. Suggestive, a tale proposito, sono le pagine dedicate nel libro alle grandi tragedie greche dove si narra la forza dei marinai, dei viandanti, dei senza cittadinanza, delle donne nelle insorgenze. Sono tratte da poeti, storici e politici – da Clistene a Efialte, tra i pochi non ostili alla democrazia. L’hanno tramandata, nonostante Platone e Aristotele, ai moderni Machiavelli, Spinoza fino a oggi.

IN QUESTO SPARTITO, declinato diversamente dai teorici della «democrazia radicale» come da quelli della «moltitudine», Di Cesare valorizza la tesi del filosofo francese Jacques Rancière secondo il quale la democrazia è il nome dei senza nome, il potere dei senza parte. Non solo dei poveri, ma di tutti coloro che non contano, né hanno la possibilità di essere contati. An-anarchico è il soggetto che oscilla tra il potere e il popolo, frutto delle mescolanze tra i residenti nazionali e gli stranieri residenti. Insieme, quando maturano una solidarietà politica e scelgono di coabitare negli stessi luoghi, possono rimettere in movimento la democrazia al di là delle sue concezioni strumentali, funzionaliste, rappresentative o teologico-politiche.
Sui loro stendardi Di Cesare immagina che abbiano scritto il motto: «Né comandare, né essere comandati». Potrebbe essere consonante con quello che recita: «Schiavi di niente, padroni di nessuno».

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