Il termine riot si è affermato nel nostro parlato. L’equivalente in italiano ci sarebbe, più di uno, per esempio rivolta o sommossa, e tuttavia il loro uso appare limitato a una dimensione storica, a vicende di un passato preindustriale, tipo il tumulto del pane descritto nei Promessi sposi. Quando in gioco è il presente, si preferisce parlare di riot, con riferimento a esplosioni di rabbia collettiva, caratterizzate da scontri con la polizia, incendi e saccheggi.

DI ESSO, SOLITAMENTE, si evidenzia la dimensione «prepolitica», l’assenza di rivendicazioni articolate e di strutture organizzative. Lo si colloca in contesti soprattutto americani, con propaggini nelle periferie britanniche o francesi, magari paventandone la diffusione anche alle nostre latitudini.

Sul riot si concentra il volume di Joshua Clover Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte proposto nella collana «Culture radicali» curata dal Gruppo di ricerca Ippolita (Meltemi, pp. 244, euro 20). L’autore è un poeta e critico culturale, attento soprattutto alle implicazioni politiche della pop culture, ma anche militante e polemista della sinistra radicale statunitense.

Come chiarito fin dalle prime pagine, Clover si propone di fornire una modellizzazione chiara, con tutti i rischi e i vantaggi che ciò comporta. Punto di partenza è il tentativo di distinguere fra due forme di lotta, il riot e lo sciopero, collocando i due repertori di azione in una sequenza storica che, parafrasando la formula di Marx denaro-merce-denaro’, dal riot conduce al riot’ attraverso il passaggio per la lunga fase egemonizzata dalla sciopero.

Entrando più nello specifico, Clover, sulla scia degli scritti dello storico britannico E.P. Thompson, caratterizza il riot come «conflitto sui prezzi», che si sviluppa nella sfera della circolazione e trova il proprio scenario nel mercato, inteso come luogo fisico dove convergono le merci, o nel porto, punto notevole della loro concentrazione e proiezione nella sfera del commercio internazionale. L’obiettivo è quello di acquisire attraverso l’azione diretta un controllo sui prezzi delle merci e scongiurare la loro sottrazione all’ambito locale.

LO SCIOPERO, diversamente, si presenta come conflitto per il prezzo di una specifica merce, il lavoro, si sviluppa nella sfera della produzione e trova nella fabbrica o nel luogo di lavoro la propria localizzazione. Progressivamente, lo sciopero, passando ovviamente attraverso un’ampia gamma di forme ibride soppianta il riot come forma di lotta per la «riproduzione» delle classi subalterne. Ma anche tale fase si esaurisce, e si assiste così al (ri)emergere del riot’.

L’autore riprende le teorizzazioni sull’economia mondo di Immanuel Wallerstein e, in particolare, lo schema analitico dei cicli sistemici di accumulazione di Giovanni Arrighi. Nel modello proposto da quest’ultimo (di cui recentemente è stato riedito da Mimesis l’importante Adam Smith a Pechino) lo sviluppo capitalistico sarebbe scandito da cicli egemonici incentrati su determinate localizzazioni caratterizzati nella fase ascendente dalla crescita industriale a cui corrisponde, nella fase discendente, uno spostamento sulla dimensione finanziaria, preludio allo sviluppo, a partire da un altro centro, di un nuovo ciclo egemonico. Clover, da una parte sua, fonde in un’unica unità il ciclo inglese e americano.

NON SOLO: mentre per Arrighi il tramonto del «secolo americano» prelude all’incubazione del «secolo asiatico», per Clover ci troveremmo di fronte a una crisi di carattere sistemico concettualizzata a partire da un luogo del pensiero di Marx non particolarmente frequentato negli ultimi decenni, ossia la «caduta tendenziale del saggio di profitto». Se il plusvalore si estrae esclusivamente dal lavoro vivo, l’accresciuto peso nel lavoro morto, del lavoro oggettivato nei macchinari, creerebbe una crisi di profitti nell’ambito della produzione manifatturiera. Ciò eroderebbe gli spazi di contrattazione sul luogo di lavoro, e sarebbe alla base della senescenza della forma sciopero. Gli operai, a fronte del decremento del plusvalore, si vedono costretti a negoziare al ribasso, dovendo al contempo «cooperare» con il padronato per scongiurare la chiusura delle attività produttive.

Il 1973 è individuato come il momento spartiacque che apre a una nuova fase, in cui le forme di lotta si spostano dalla dimensione della produzione per tornare, in forme nuove, a quelle della circolazione. Nel riot’ sono la piazza e le strade i luoghi del conflitto. A prendervi parte possono essere anche lavoratori, ma non in quanto tali.

Se nel riot originario l’obiettivo era l’imposizione dei prezzi, e rientrava in una prospettiva di riproduzione delle classi subalterne, il riot’ viene correlato alla presenza e concentrazioni di popolazioni eccedenti e razzializzate, alla «produzione di non produzione» che caratterizzerebbe il capitalismo «postfordista». Inoltre, anche nel caso degli scioperi, che certo non scompaiono, l’azione tende a concentrarsi sull’occupazione delle grandi arterie e sul blocco dei flussi e della circolazione.

L’impostazione teorica di Riot. Sciopero. Riot può suscitare perplessità. L’assunzione di una certa declinazione della teoria marxiana della crisi chiama in causa una serie di questioni controverse, secolarmente dibattute, in primis la teoria del valore-lavoro per arrivare alla distinzione fra lavoro produttivo e improduttivo, fra sfera della produzione, in cui si genera il plusvalore, e della circolazione cui imputare soltanto la sua realizzazione. Clover, in proposito, si smarca da una trattazione approfondita. Tuttavia ad affidare a quella chiave di lettura un ruolo strategico è lui stesso. Di conseguenza, le questioni a essa connesse non possono poi essere liquidate come elemento di dettaglio.

Detto ciò, il grande interesse del libro risiede nella mole di elementi riflessione che apporta sui repertori del conflitto del passato e del presente, nella capacità di emancipare la discussione sulle forme di lotta dalla subordinazione alla questione della violenza, di evidenziare la sfera della circolazione come chiave di lettura delle manifestazioni di conflittualità del presente, di denaturalizzare il riot per cercare di coglierne la dimensione politica. Da questo punto di vista, può risultare utile sciogliere la narrazione cloveriana dai limiti di un’impostazione teorica che può apparire angusta, per confrontarla con altre prospettive.

E allora a tornare è la questione del valore, di quel nucleo sfuggente e «metafisico», ma allo stesso tempo terribilmente effettivo, dell’economia. Per esempio, si potrebbe chiamate in causa la proposta di Luc Boltanski e Arnaud Esquerre, secondo cui nelle “economie dell’arricchimento”, basate sul plusvalore di circolazione, il valore lungi dall’essere il fondamento oggettivo intorno al quale ruota il prezzo ne costituisce la «giustificazione», che viene costruita «narrativamente» dalla cooperazione di una pluralità di attori ed appropriata privatisticamente. Oppure, come suggeriscono Into the Black Box nella postfazione del volume, interrogarsi sulle catene del valore che si costituiscono attraverso il capitalismo delle piattaforme, e sulle lotte che in esso insistono.

PER CLOVER, nel crollo generalizzato del valore, la platea del riot’ è costituita un eccesso generato dalla «produzione della non produzione». Vi si può guardare in un’altra prospettiva, e vedere come tale eccedenza, nella sua articolazione interna, rimandi anche ai «giacimenti» su cui si esercita l’estrattivismo di marchi, piattaforme, capitale finanziario e nella sfera della circolazione il terreno in cui, in forme diverse, i flussi immateriali toccano terra e si confrontano con i territori e, si ci augura, con una loro crescente asperità e riottosità.

Alcune letture per approfondire

Sull’enigma del valore si può segnalare, in una prospettiva economica più mainstream, M. Carney, «Il valore e i valori» (Mondadori). Per approcci di tipi differente: L. Boltanski, «Arricchimento. Una critica della merce», (il Mulino); M. Mazzuccato, «Il valore di tutto», Laterza; A. Appadurai (a cura di), «La vita sociale delle cose» (Meltemi).