Quando, nel maggio del 1933, don Giuseppe De Luca invita un poco più che ventenne Carlo Bo a collaborare a una collana di monografie edita da Morcelliana la scelta, a sorpresa, ricade sulla figura di Jacques Rivière anziché su quella dei più conosciuti Gide e Alain-Fournier. Il volume, che rappresenta l’esordio del critico ligure, laureatosi con una tesi su Huysmans cui seguirà una dissertazione di perfezionamento su Sainte-Beuve, uscirà due anni dopo nella collana «I compagni di Ulisse» che intendeva mettere a disposizione del lettore di ascendenza cattolica una serie di ritratti che spaziava da Virgilio a Leonardo, da Schopenhauer a Freud, con un occhio di riguardo per gli autori francesi (Balzac, Baudelaire, Proust, lo stesso Gide visto da Henri Massis).

Da allora, se si eccettua un estratto confluito nell’antologia Letteratura come vita, curata da Sergio Pautasso per Rizzoli nel 1994, questo cammeo non venne più stampato. Ci pensa ora la Fondazione Carlo e Marise Bo che, con Raffaelli Editore, ripropone Jacques Rivière (pp. 216, € 18,00), a cura di Massimo Raffaeli, nella collana dei «Quaderni della Fondazione Bo» che annovera contributi che gettano nuova luce sui rapporti intercorsi con poeti d’eccezione (Ungaretti, Montale, Betocchi), nonché su autori di area francese come Péguy e Proust. Nel palazzo urbinate della stessa fondazione si è tenuta la mostra Linea Proust riguardante il patrimonio documentario del critico sull’autore della Recherche, contenente circa settecento volumi, tra cui edizioni originali e manoscritti.

È d’altronde paradossale che Rivière, a fronte di una natura schiva e appartata che si scontrava con il posto di rilievo assunto alla «Nouvelle Revue Française» (prima segretario, poi direttore), rivestisse un ruolo fondamentale nel promuovere autori, molto dissimili tra loro, operanti nel milieu intellettuale d’inizio secolo e dell’entre-deux-guerres. Si pensi ad Alain-Fournier, Claudel, Gide, Proust, Artaud, ma anche all’incarico di divulgatore e mediatore culturale sostenuto nell’arco di tre lustri. Morto a nemmeno quarant’anni nel 1925, dopo aver sposato Isabelle Fournier, sorella dell’autore del Grand Meaulnes, e aver fatto l’esperienza dei campi di detenzione tedeschi, Rivière si rapportò a quel mondo variegato con l’incandescenza di una meteora, distinguendosi per discrezione e delicatezza (Rimbaud, a cui dedicherà un saggio uscito postumo nel 1930 per Kra, scrisse in Chanson de la plus haute tour, quasi prefigurando l’esistenza del suo esegeta: «Oisive jeunesse / À tout asservie, / Par délicatesse / J’ai perdu ma vie»).

La lettura di Bo non poteva non risentire del dissidio esistenziale che portò il critico francese a misurarsi, in maniera inquieta ma incondizionata, con il retaggio cattolico e i motivi dell’umiltà (non dell’umiliazione, si badi: «Dimostrare che Rivière si comprende solo con l’umiltà») che si sviluppano intorno a quell’ictus cordis idealmente contrapposto alle intermittences du cœur di proustiana memoria. Non è un caso che lo splendido romanzo Aimée, edito nel 1922 e tradotto da Niccolò Gallo per Feltrinelli nel ’59, sia dedicato a questo «grande interprete dell’amore», poi investigato in chiave freudiana in un ciclo di conferenze, e che lì si descrivano le «irrégularités de mon cœur».

E sarà proprio il tanto bistrattato cuore, l’inquietum cor nostrum di cui parla Sant’Agostino, a costituire l’abbrivio da cui si dipana l’opera di Rivière, tesa a scandagliare quello stato di insufficienza, di precarietà, al fine di sublimarlo attraverso un’espressione salvifica, che in sé presupponga i crismi della redenzione, se non della «grazia» cui aspirerà di lì a poco, avviluppata in ragnatele d’«ombra», Simone Weil. Ancora Bo ci viene in soccorso: «Bisogna pensare a un’assenza della Grazia che, in ultima analisi, è presenza, preparazione alla Grazia».

Si tratta di un percorso duro, accidentato, che presuppone molteplici battute d’arresto, ripensamenti, inevitabili messe a punto, distinguendosi per il ruolo che si affida al cuore, considerato sì come inimitabile «strumento di conoscenza» ma anche «il primo moto, il movimento istintivo di Rivière». Lo stesso processo di conversione, spesso coincidente con la «difficoltà di credere», durerà parecchi anni, tanto che l’autore dello Scandalo della speranza si chiede: «Finirà, non finirà con la vita?». Al contempo è presente il tentativo di svincolare il profilo di Rivière dall’ingombrante influsso di Gide e Claudel o, per lo meno, a non farne un loro epigono, distaccandolo così da una serie di abusati stereotipi. Basta d’altronde leggere certe prove per rendersi conto di quanto Rivière consolidasse la sua indipendenza non solo attraverso il suo esprit, ma con un atteggiamento misurato, disinteressato, in cui la pietas si configura come il vero sigillo di un’opera che aspira a una conoscenza che trova nel modello pascaliano («Pascal ha in lui un discepolo») le ragioni di un’adesione, se non a una verosimiglianza di stampo gidiano, alla verità nuda, lacerante, delle stimmate.

Ha ragione Raffaeli quando, nella sua pregevole prefazione, asserisce che Rivière «è un saggista anche quando le convenzioni della letteratura lo vorrebbero romanziere o memorialista» (cfr. il concetto di «romanzo d’avventura» coniato nel 1913 in un articolo confluito sulla «Nouvelle Revue Française»). Un’opera come Études, edita nel 1911 e proposta in italiano da Bompiani nel ’45 con il titolo Studi, è emblematica al riguardo, offrendo uno sguardo approfondito, di taglio comparativo ante litteram, intorno a pittori (Ingres, Cézanne, Matisse, Gauguin, Rouault), musicisti (Rameau, Ravel, Debussy, Mussorgskij, soprattutto il Bach della Passione giovannea), letterati (Gide e Claudel sotto l’egida dello specchio ustorio baudelairiano). «Comprendere Ingres o Gide, vuol dire soltanto comprendere sé stesso», sostiene Bo.

È condivisibile quanto afferma il critico italiano: «I testi da doversi ricordare ad ogni passo: i saggi sulla sincerità, sulla Fede, Aimée o le note su Proust o Marivaux – e soprattutto tutto ciò che M.me Rivière ha creduto di poter raccogliere sotto il bel titolo di À la trace de Dieu». Bisognerebbe forse aggiungere l’introduzione ai Miracles che apparve nel 1924, giusto un decennio dopo la morte a Verdun dell’amico Alain-Fournier, e passi scelti dai carteggi che, volatili come schegge, offrono un mirabile spaccato di quell’esistenza frugale, francescanamente arricchitasi sulla propria irredimibile povertà d’eventi. Bo trova analogie fra ratio cartesiana e «relazione di uno scienziato» che stridono con gli esiti delle coeve avanguardie storiche, capite e assimilate solo in parte (vedi il saggio sul dadaismo). Le ultime parole, rivolte all’amico Ghéon, furono lapidarie ed esemplari: «Henri, je viens».