Sono sessant’anni esatti che il pianeta non sa più immaginarsi senza la musica dei Beatles. Una linea del tempo la cui seconda metà è scandita da pubblicazioni di materiale più o meno inedito, come a concedere un minimo di suspense anche alle generazioni cui la storia ha precluso il rito collettivo del primo ascolto. In principio fu l’Anthology (1995-96) a sfondare dall’interno una quarta parete già aperta dalla breccia dei bootleg. Seguì la restaurazione dell’intentio auctoris con Let It Be… Naked (2003) arricchito dalle outtakes di Fly On The Wall. E proprio come mosche sui muri degli studios abbiamo vissuto le rivelazioni delle uscite celebrative per i recenti cinquantennali. Le tracce acquistano nitidezza, separazione e ampiezza spaziale: bastano pochi secondi di Taxman per accogliere come una benedizione la batteria di Ringo finalmente al centro dell’immagine sonora dopo decenni di vita in periferia.

IL «NUOVO» Revolver non cerca più neanche il pretesto della ricorrenza, tanta è l’assuefazione del pubblico. E di Giles Martin, incapace di staccarsi dai nastri paterni. Ennesima riedizione, dunque, a vari livelli di lusso: nuovo mix stereo e Dolby Atmos, sessions, mix mono originale, EP con i singoli Paperback Writer e Rain in stereo e mono. Fino a cinque dischi più canonico book. Ma senza il legno di Friar Park utilizzato per il segnalibro di All Things Must Pass. Come in un restauro pittorico, il nuovo mix accresce pulizia e leggibilità dell’opera, senza metterne più di tanto a repentaglio l’autenticità. Le tracce acquistano nitidezza, separazione e ampiezza spaziale: bastano pochi secondi di Taxman per accogliere come una benedizione la batteria di Ringo finalmente al centro dell’immagine sonora dopo decenni di vita in periferia. Voci cristalline e avvolgenti, bassi più presenti. Certo, qua e là ci si chiederà: era proprio necessario dare decibel a organi e seconde chitarre (She Said She Said), rifare le sfumature a Paperback Writer, o far rimbalzare a destra e sinistra il bordone di sitar in Tomorrow Never Knows?

OBIEZIONI subito cassate dalle outtakes che, pur parzialmente già note, restano il piatto forte di cui si ciba tanto il voyeurismo auricolare quanto la sincera esigenza documentaria. Quella che nell’ultima edizione è soddisfatta da esempi come Yellow Submarine, la cui prima demo casalinga di Lennon rivela un insospettabile spleen («In the town where I was born no one cared, no one cared»), convertito in buonumore — manco a dirlo — dall’intervento di McCartney.
La caustica ironia di John sopravvive tra stralci di conversazioni. «Quite brisk, moderato, foxtrot», indica lanciando And Your Bird Can Sing (già sommersa dalle risate tra lui e Paul). Per poi prendere di mira Harrison e le varietà di mele che ne nominano provvisoriamente i brani: «Granny Smith frigging part 2… Non hai mai avuto un titolo per le tue canzoni!». Anche il nostro stupore esce restaurato, dalle pareti squarciate di Abbey Road. Resta un’ultima obiezione: non sarebbe il caso di proporre finalmente un’edizione critica e completa di questi nastri, ormai sparsi dappertutto? Costerebbe forse più di un nuovo cofanetto? Chissà se a Londra ci stanno pensando, per i sessantennali appena iniziati.