«È un’intimidazione alla candidata di un partito di opposizione al governo italiano, fatta da un esecutivo amico». È una furia Roberto Salis, il padre di Ilaria, all’uscita della terza udienza del processo contro la figlia che si è tenuta ieri nel tribunale di Budapest. La prima in cui l’insegnante antifascista non è arrivata con guinzaglio e catene grazie all’ottenimento dei domiciliari. Nelle battute iniziali il giudice monocratico József Soós ha rivelato l’indirizzo dell’appartamento dove l’imputata sconterà la misura cautelare, almeno fino alle elezioni europee. Lo ha riferito con divieto di pubblicazione, certo, ma nell’ultima fila di sinistra di fronte a lui e al fianco della vittima del pestaggio c’era pur sempre il gruppetto di uomini che ha accolto i Salis, i suoi compagni, i giornalisti e i parlamentari con una telecamera sempre accesa per riprendere facce dei presenti e targhe dei veicoli in transito.

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«IT’S CRAZY», «è una follia», sbotta Attila Vajnai appena vengono pronunciati in magiaro strada e numero civico. È presidente del Partito dei lavoratori di Ungheria 2006, una piccola formazione che non ha rappresentanza in parlamento ma è parte della Sinistra europea. «Orbán sta usando politicamente questo processo contro i movimenti antifascisti, dicendo che sono tutti terroristi», commenterà più tardi. Intanto in aula arriva la traduzione in italiano e Roberto Salis scatta in piedi e si gira indietro: «Ma ambasciatore!», dice guardando Manuel Jacoangeli, che rappresenta l’Italia a Budapest. L’ingegnere sardo-monzese è da mesi che ripete di temere per l’incolumità della figlia e il dettaglio dell’indirizzo fa partire un nuovo allarme. Anche la moglie è preoccupata e scuote la testa.

Durante una pausa Jacoangeli spiega al manifesto che ritiene la comunicazione del giudice «un po’ incauta», per questo «ho già fatto una nota all’autorità ungherese chiedendo l’adozione di misure adeguate di protezione e sicurezza per la cittadina italiana». Il diplomatico, però, specifica di considerare la capitale magiara una delle città più sicure al mondo e di non essere preoccupato neanche dai murales che ritraggono Ilaria Salis impiccata. Comparsi nei mesi scorsi, sarebbero «gesti isolati». In ogni caso, l’ambasciata ha agito «per prudenza».

La cosa, al contrario, manda su tutte le furie Alleanza Verdi e Sinistra. Il deputato Marco Grimaldi, presente in tribunale, alza la voce: «È intollerabile, ci faremo sentire in parlamento». Gli fanno eco dall’Italia i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli: «Così mettono a rischio l’incolumità della nostra candidata, della sua famiglia e di chi la ospita».

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LA GIORNATA era iniziata alle 8.30. Ilaria Salis scende dal taxi. Il padre le stringe il braccio sinistro sulla spalla. La guida all’ingresso del tribunale, facendo un giro dal lato opposto rispetto ai cinque-sei uomini alti e palestrati, alcuni con le teste rasate, che si avvicinano con sguardi minacciosi ma senza proferire parola. Roberto e la figlia bucano anche il gruppo di una ventina di italiani che attendono davanti all’altra porta. «Devo andare al processo, grazie a tutti», dice Ilaria. Come annunciato, non rilascia dichiarazioni.

Nell’udienza intervengono una vittima di aggressione e due donne, testimoni oculari. «Una ragazza mi ha chiesto della marcia del Giorno dell’Onore. Ho detto che non avrei partecipato. Poco dopo sono stato attaccato», racconta l’uomo. Dice di essere «orgoglioso dei valori del mio paese, come mostrano i vestiti militari che amo indossare e le mie apparenze» e di considerarsi «un fiero ungherese». Interviene da una stanza separata, con voce distorta elettronicamente e senza mostrare il volto per motivi «di protezione». Nega di essere stato coinvolto in conflitti o aver postato contenuti di odio sui social. Afferma di far parte di un’associazione tradizionale di tiro con l’arco. Si contraddice quando sostiene di aver avuto dolori per tre mesi ma di essere tornato all’attività sportiva dopo uno. Non dichiara il nome del medico che, tre mesi dopo e a 300 chilometri da Budapest, gli ha refertato tre costole rotte di cui in prima battuta non c’era traccia.

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LE ALTRE FERITE le ha avute in testa. Si vedono in uno dei video mostrati dal giudice che seleziona e commenta i materiali di prova, quasi fosse lui a sostenere l’accusa insieme alle due procuratrici. Le testimoni raccontano l’aggressione a cui hanno assistito, aggiungendo il particolare di un segnale che avrebbe messo fine all’attacco. Nel capo di imputazione è riportato come una delle prove dell’appartenenza a una presunta organizzazione a delinquere di antifascisti tedeschi, che agirebbe secondo tale schema. Nelle deposizioni a caldo, però, nessuna delle due donne aveva menzionato la cosa.

In ogni caso, nessuno dei tre soggetti intervenuti in udienza riconosce Ilaria Salis. Contro di lei restano solo i vestiti indossati al momento dell’arresto che per l’accusa corrisponderebbero a quelli di una persona che ha partecipato all’aggressione. Sulla stessa base era stata arrestata anche una cittadina ungherese all’inizio dell’inchiesta, rilasciata dopo alcune settimane. La prova madre del processo è la consulenza antropometrica che in base a movimenti e dimensioni del corpo rilevati nei video sostiene che potrebbe trattarsi di Salis. Potrebbe: non lo afferma al di là di ogni ragionevole dubbio.

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L’IMPUTATA ESCE dall’aula insieme al padre. Riconosce l’attivista No Tav Luca Abbà, gli sorride, scambiano qualche parola. «Mi ha detto che porta sempre la Val Susa nel cuore», racconta Abbà. Prima di salire sul taxi c’è tempo per un applauso e un coro di incoraggiamento degli attivisti arrivati a sostenerla da Milano, Roma, Bologna e altre città. Poi il tragitto verso l’appartamento dove sconterà i domiciliari, confermati dal giudice.

La prossima udienza è il 6 settembre, ma la prossima tappa sono le europee dell’8 e 9 giugno. Se Salis sarà eletta otterrà l’immunità e potrà tornare in Italia. In quel caso il suo processo potrebbe anche finire del tutto.