«Prive di filtri e mai concepite per la pubblicazione, le lettere di Hemingway costituiscono la sua autobiografia scritta al presente indicativo. Arricchiscono la nostra comprensione dei suoi processi creativi, offrono una prospettiva dall’interno sulla scena letteraria del Ventesimo secolo e documentano la creazione e la commercializzazione di un’icona americana». Con queste parole Sandra Spanier, docente alla Pennsylvania State University e curatrice generale di un’impresa che coinvolge, a vario titolo, alcuni dei più grandi specialisti americani di Hemingway – da Linda Patterson Miller a Scott Donaldson, da Linda Wagner Martin a James L. West III – motiva la decisione di raccogliere, in un progetto davvero gigantesco, The Cambridge Edition of the Letters of Ernest Hemingway, l’intero epistolario dello scrittore americano: dalle prime parole scritte al padre a inizio luglio del 1907, subito prima di compiere otto anni, alle ultime lettere spedite pochi giorni prima del suicidio, il 2 luglio del 1961.

Dall’introduzione generale all’opera è possibile ricavare alcuni dati che ne testimoniano l’importanza capitale: in tutto, e al termine di un lavoro di ricerca degno di una squadra di detective, è stato possibile raccogliere più di 6.000 lettere, l’85% delle quali inedite; ai fondi principali – quello della Kennedy Library a Boston, che ne conserva circa 2.500, e quello della Princeton University Library (con 1.400 lettere ricavabili dagli archivi di Scribner’s, lo storico editore di Hemingway, ma anche di Sylvia Beach, di Scott Fitzgerald e di Carlos Baker) – si sono aggiunti altri, significativi «blocchi» detenuti da biblioteche pubbliche e universitarie. Ancora più interessanti i contributi spontanei pervenuti ai curatori in seguito all’annuncio del progetto, nella primavera del 2002: dalle tre lettere che Hemingway spedì nei primi anni Cinquanta a John Robben, ventunenne studente che aveva pubblicato, sul giornale del suo college, una recensione e analisi critica del Vecchio e il mare, a quelle scritte a Roy Marsh, pilota dell’aereo che, il 23 gennaio 1954, precipitò in Africa con a bordo Hemingway e la quarta moglie Mary, nonché passeggero del secondo velivolo, giunto in soccorso e precipitato a sua volta.

La pubblicazione dell’opera ha preso il via nel 2011 con il primo volume, nel quale sono racchiuse le lettere infantili del periodo 1907-1922, a cui si sono aggiunti, a oggi, i volumi relativi al 1923-1925, al 1926-1929 e al 1929-1931, rendendo a questo punto evidente la irrinunciabilità di un progetto editoriale che, lungi dal limitarsi a inseguire la superflua esaustività del quadro biografico, restituisce l’iter complessivo dello scrittore, testimoniando sia della breve esperienza sul fronte italiano negli ultimi mesi della Prima guerra mondiale, che dell’avviamento alla scrittura come giornalista, e dei lunghi periodi trascorsi a Parigi, a stretto contatto con l’élite letteraria dei cosiddetti espatriati: da Gertrude Stein a Ezra Pound, da Sherwood Anderson a Fitzgerald. E, ancora, troviamo le ripetute trasferte in Spagna e la scoperta della corrida; l’esplosione letteraria con i racconti di In Our Time e Men Without Women e i due romanzi che rimangono probabilmente i suoi capolavori: Fiesta e Addio alle armi.

Un quinto volume, che dovrebbe concentrarsi, tra l’altro, sulla pubblicazione del grande romanzo-saggio sulla corrida Morte nel pomeriggio e sui primi safari africani, è annunciato per il 2020, ed è ragionevole attendersene almeno altri quattro o cinque che abbracceranno la seconda fase della carriera di Hemingway, meno produttiva sul piano squisitamente letterario – sebbene con le rilevanti eccezioni di racconti-capolavoro come «La breve vita felice di Francis Macomber» e «Le nevi del Kilimanjaro», e di grandi successi quali Per chi suona la campana e del Vecchio e il mare – ma ricchissima di eventi come la partecipazione alla Guerra di Spagna e alla Seconda guerra mondiale, in un ruolo sospeso tra testimonianza giornalistica e azione diretta, il lungo soggiorno a Cuba, i ripetuti ritorni in Spagna e in Africa, il Nobel, il progressivo decadimento fisico e mentale culminato nella decisione di togliersi la vita, lasciandosi alle spalle una congerie impressionante di materiali incompiuti, poi raccolti e pubblicati postumi in romanzi come Isole nella corrente, Il giardino dell’Eden e, da ultimo, Vero all’alba.

L’impresa, palesemente titanica, renderà di sicuro più facile il lavoro a biografi e critici, ma potrebbe trovare un riscontro inatteso anche nei lettori. In tempi nei quali la discussione pubblica si concentra spesso sul marketing letterario, sul rapporto tra autore e editore o tra autore e editor, sulla opportunità o meno per lo scrittore di coltivare una dimensione pubblica e sui modi con cui è possibile farlo senza sovrapporre il personaggio all’artista e senza compromettere la propria integrità, una prospettiva a 360 gradi sulle lettere di Hemingway – che si spinge ben oltre rispetto a quella offerta dalle Selected Letters pubblicate negli Stati Uniti nel 1981 a cura di Carlos Baker e tradotte in italiano da Mondadori – potrebbe offrire una quantità illimitata di spunti. Un solo esempio, ma significativo: il 7 dicembre 1925 Hemingway inviò a Liveright, l’editore che aveva pubblicato la sua raccolta In Our Time, il manoscritto di Torrenti di primavera, una palese parodia di Riso Nero, romanzo di quel Sherwood Anderson che – oltre a essere stato uno dei suoi primi sostenitori e averlo presentato a Pound e a Gertrude Stein – era anche l’autore di punta della casa editrice. Prima ancora dell’invio, aveva comunicato a Pound di aver scritto il «buffo libricino» in dieci giorni e il 31 dicembre, in una lettera a Fitzgerald, si era detto certo di un rifiuto da parte di Liveright, perché l’editore non avrebbe mai potuto accettare di dare alle stampe un libro «che si fa beffe del suo asso e best seller Anderson». Comunicò quindi la possibilità di cambiare casa in via definitiva, affidando Torrenti di primavera e il successivo Fiesta a uno dei tre editori che si erano detti interessati: Knopf, Harcourt e Scribner’s. Sarebbe stato quest’ultimo a prevalere, e la successiva, luminosa carriera di Hemingway sarebbe stata affidata alle capaci mani del più grande editor dell’epoca, Maxwell Perkins, mentore dello stesso Fitzgerald.

Nella loro versione integrale, le Lettere – in particolare, il terzo volume – consentono di ricostruire nei minimi dettagli una delle vicende più «chiacchierate» della biografia hemingwayana, esempio di quella spregiudicatezza al limite del cinismo che l’autore avrebbe dimostrato in diverse altre occasioni, non facendosi il minimo scrupolo nel criticare o nel prendere le distanze dalle persone che più avevano contribuito al suo successo. Ripercorrere la storia editoriale e umana di Torrenti di primavera, dalla lettera a Pound fino a quella, piena di imbarazzo con la quale, il 21 maggio 1926, Hemingway cercava di spiegare le proprie ragioni all’«amico tradito» Sherwood Anderson, consente, come molti altri episodi di cui la sterminata corrispondenza raccolta dai curatori dà conto, di ricomporre a distanza non solo un contrastato e affascinante ritratto d’artista, ma anche la cronaca minuta di una stagione letteraria intensa e complessa, segnata dal passaggio da una concezione sacrale dell’arte a una non meno impegnata, ma infinitamente più secolare.