Che lo stato di emergenza pandemica, insieme all’epoca dei tassi negativi e del denaro a pioggia della Banca Centrale Europea, fossero finiti lo abbiamo capito da un anno. Il crollo del castello di carte del draghismo ha dimostrato il drastico cambio del ciclo economico nella persistenza della policrisi capitalistica, come la chiama lo storico dell’economia Adam Tooze.

Nel 2024 tornerà in vigore nell’Unione Europea il «patto di stabilità e crescita» sospeso dal 2020. E ieri la Commissione Europea ha fornito agli Stati membri una serie di linee guida per prepararsi all’ora X. I famosi parametri «stupidi» del 60% del debito e del 3% di deficit sul Prodotto Interno Lordo resteranno, ma il loro raggiungimento sarà gestito in maniera «politica», mediante una contrattazione paese per paese con la Commissione, come nei fatti è stato fino al 2019. Questa idea soddisfa l’Italia (ieri Melonila auspicava), ma lasciano sospettosi la Germania e i suoi satelliti. La Commissione cammina sulle uova. Da un lato, rassicura l’Italia dicendo che gestirà il rientro nei parametri sul debito (del tutto ipotetico); dall’altro lato, dice ai tedeschi che la sua super-visione non farà sconti alle «cicale». In fondo, la commedia è la stessa.

Non ci sarà però il ritorno all’austerità pura e dura ha precisato il commissario Ue all’economia Paolo Gentiloni. La restrizione della spesa pubblica ci sarà comunque, ma dovrà essere «mirata», solo il cielo sa cosa significa. Oppure alle trattative con il governo di turno condotte però all’interno di una cornice fissa ispirata a un peculiare momento keynesiano del neoliberalismo, l’agenda economico-politica che resta dominante in Europa insieme all’idea di uno Stato sociale conservatore gestito come un’impresa.

Ora la Commissione punta sugli «investimenti» finanziati dal Recovery Fund. Debito e deficit calano quando c’è la crescita, ha ricordato Gentiloni. E a patto che gli investimenti del «Pnrr» in Italia funzionino, andrebbe aggiunto. E questo è tutto da vedere. Perché l’alta inflazione ha cambiato le carte in tavola, fissate in un’altra congiuntura, a cominciare dai prezzi. Dopo l’esplosione della crisi energetica, il governo Meloni ha capito che i conti non tornano e ha chiesto lo spostamento dal 2026 al 2029 della fine del piano europeo di «ripresa», cosciente del fatto che è tutt’altro che scontata la capacità italiana di realizzare gli investimenti. O di portare a termine le riforme «neoliberali» simboliche come quella sui «balneari». Pretesa da Bruxelles, ma contraria agli interessi di uno dei componenti del blocco reazionario al potere qui da noi.

L’Italia resta un’osservata speciale, sia perché ha ricevuto la fetta più sostanziosa del «Recovery fund», sia per la debolezza strutturale di un’economia fondata sui bassi salari, crescita anemica, bassa produttività. I tre anni di crisi hanno però lasciato aperte ferite dappertutto. Sono 12 i paesi dell’Eurozona ad avere un deficit sopra il 3% nel 2023: oltre all’Italia ci sono Francia, Germania, Spagna. Non è nemmeno chiaro se il 2024 segnerà il ritorno alla “normalità” auspicata dalla Commissione Ue. Sono tutti molto attenti a non fare un passo più lungo della gamba. Anche perché l’inflazione dovrebbe rientrare sotto il 2% solo nel 2025 (quest’anno sarà al 6%). Tutto questo non permette di fare previsioni certe.

Ieri Gentiloni, e il vicepresidente della Commissione Ue Valdis Dombrovskis, hanno fissato i paletti nella trattativa tra i governi sul nuovo patto di stabilità. E a breve, sarà pubblicata la proposta «ufficiale» sul modo in cui si passerà dalle vecchie regole a quelle future.

Per punti ecco i criteri orientativi stabiliti dalla Commissione Ue: aggiustamenti di bilancio spalmati su più anni (4 o 7 con piani di riforme e investimenti); regola della spesa al posto del riferimento al deficit strutturale contestato dai più; spazio agli investimenti; procedura sul debito «rafforzata». Ma il diavolo si nasconde nei dettagli. E questi possono restare solo dei titoli buoni per l’insalata di burocratese servita dalle maggioranze di turno.

Nella più grande incertezza, comunque da ieri in Italia si è iniziato a scrivere la prossima legge di bilancio. E non è detto che i soldi, già pochini, saranno di più a fine anno. La prova generale di una nuova stagione di diseguaglianze la stiamo avendo sul taglio del «reddito di cittadinanza» e la nuova «riforma» fiscale delle destre: austerità per i lavoratori poveri e precari, qualche spicciolo in più per i medio-benestanti. In fondo è questa la «flessibilità» che non irrita Bruxelles ed è ritenuta pagante dalle destre neoliberali. L’ordine, presto, sarà ristabilito. O così pensano.