Cultura

Ritorno all’infanzia, scavalcando barriere

Ritorno all’infanzia, scavalcando barriere«You AreMy Sunshine» di Wangechi Mutu, 2015

Gaël Faye Un’intervista con lo scrittore e musicista nato in Burundi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 11 febbraio 2017

Una storia che ha cominciato a raccontare dapprima attraverso il rap, con lo splendido Pili pili sur un croissant de beurre, un album uscito nel 2013 e a lungo in testa alle classifiche francesi, e ora con Piccolo Paese (Bompiani, pp. 224, euro 17) un intenso romanzo di formazione già vincitore del Prix Goncourt des Lycéens lo scorso anno.

Quella di Gaël Faye, nato in Burundi nel 1982 da madre ruandese e padre francese, fuggito nel 1995 allo scoppio della guerra civile in Rwanda, dove la famiglia materna, tutsi, ha subito lutti e sofferenze terribili, e cresciuto nella banlieue parigina dove ha scoperto la cultura hip-hop, collaborando con alcuni dei più noti musicisti della scena locale, è prima di tutto la storia di una ricerca. Il tentativo di preservare quel mondo interiore dell’infanzia, prima che il genocidio ruandese travolgesse ogni cosa, in cui bambini di ogni origine crescevano insieme. Un mondo che Faye ha trasformato nella metafora stessa della convivenza e dell’incontro e che, nel suo romanzo, pensato come una tappa successiva della scrittura musicale, ha il volto del piccolo Gaby, della sua famiglia e della sua banda di amici di strada nel quartiere benestante della città burundese di Bujumbura. Quello il punto di partenza attraverso il quale lo scrittore e musicista si è trasformato in un testimone attento della realtà francese e africana.

Lei è vissuto a lungo nella banlieue parigina delle Yvelines, come valuta ciò che sta accadendo in questi giorni nelle periferie e più in generale la deriva identitaria e xenofoba che sembra caratterizzare il paese?

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A monte di tutta questa situazione, credo ci sia prima di tutto il fatto che la Francia continui a non voler fare i conti con la crisi di ciò che oggi si definisce con il termine più politicamente corretto di «integrazione» ma che è stato a lungo indicato tout-court come una brutale «assimilazione». Vale a dire il processo per cui delle persone arrivate da altri paesi, spesso da nazioni che hanno fatto parte dell’impero coloniale o dell’area di influenza internazionale di Parigi, anche dopo che vivono da anni qui, hanno acquisito la cittadinanza, hanno messo radici stabili, hanno visto i loro figli e nipoti nascere, crescere e diventare grandi come francesi, sentono ancora di essere considerati come «altri»: degli stranieri a vita in quello che è diventato nel frattempo il loro stesso paese.

In questo senso, le forme più evidenti di discriminazione e razzismo celano una realtà ancor più estesa?

Gran parte della classe politica e di coloro che decidono delle regole generali della società, sembra non riuscire neppure a immaginare che si possa essere francese e musulmano, o essere nero e di origine africana ma nato e cresciuto a Parigi. E questo malgrado il volto autentico della Francia sia tale da ormai moltissimi anni. Il mito di un paese bianco e cristiano continua a trovare eco nel dibattito pubblico, senza contare le forze politiche come il Front National che vi fanno esplicito riferimento. Ed è proprio la costante tensione tra questo mito di un’identità bianca immutabile e la realtà quotidiana di un paese che è già meticcio e cosmopolita da lungo tempo a creare scontri, alimentando da un lato abusi e razzismo da parte degli uomini in divisa e dall’altro, come accaduto ad esempio per alcuni degli attentatori del Bataclan, una deriva verso il radicalismo religioso e il terrorismo.

Nella canzone «Petit Pays» lei spiega, come apprenderà a sue spese anche Gaby, il protagonista del suo romanzo, «sono franco-ruandese, una parte di me ha ucciso l’altra senza chiedermi il permesso». La scoperta di sé avviene nello sguardo dell’altro?

Il vero dramma di quando diventiamo grandi è che improvvisamente entriamo in un mondo nel quale qualcuno ha già deciso per noi. Il contesto sociale e storico in cui cresciamo può apparirci a lungo indefinito ma poi c’è un momento in cui assume una forma precisa, immodificabile. È un processo che può compiersi in modo più lento e progressivo oppure in modo drammatico, che è quanto è accaduto a me con la guerra in Ruanda e che nelle pagine del libro succede a Gaby. Lui vorrebbe restare bambino: ha capito che nell’ambiente in cui è cresciuto il fatto di diventare hutu, tutsi, francese, ruandese o burundese lo obbligherà a misurarsi, talvolta in modo drammatico e conflittuale, con la figura dell’«altro». Gaby vorrebbe continuare a far parte di quel tutto, senza barriere e nemici che è stata a lungo la sua infanzia.

Lei ha spiegato di aver preso la decisione di scrivere il romanzo dopo la strage del Bataclan, quando ha visto agire in Francia un meccanismo simile a ciò che ha vissuto all’epoca del genocidio in Ruanda…

Ciò che è accaduto in quella parte dell’Africa, oltre vent’anni fa, continua a interrogare l’intera umanità e non solo gli africani. Di fronte alla deriva identitaria che scuote la società francese, e più in generale quella europea, e che ha conosciuto una terribile accelerazione proprio in occasione di quell’attentato di due anni fa, mi sono detto che era venuto il momento di raccontare quella storia. Che non è solo la mia storia, ma ci riguarda tutti: i meccanismi che conducono al genocidio sono iscritti nella modernità, nella sua stessa costruzione sociale e culturale. In Ruanda una parte della popolazione è stata sterminata in virtù del fatto che era stata precedentemente etichettata come tutsi.

Questa definizione era tutt’altro che «naturale», erano stati i colonizzatori europei a dividere la popolazione locale in hutu e tutsi per controllarla meglio. Proprio quella vicenda ci mostra quanto possa essere pericoloso classificare gli esseri umani per categorie e gruppi immutabili. «Non ho chiesto io di essere tutsi ma mi uccidono in quanto tutsi», è la considerazione che accompagna le vicende che racconto nel libro. Ed è questo il motivo per cui Gaby rivendica la sua possibilità di non scegliere un’identità, se non quella meticcia, e di conservare intatta la sua libertà di essere umano, il suo libero arbitrio da opporre all’orrore.

La grande diffusione della cultura hip-hop, specie nelle banlieue, ha contribuito a definire in Francia uno spazio nuovo dove esprimere proprio un’identità meticcia?

Per certi versi si, ma non solo in Francia, direi a livello globale, in Europa come in Africa. Si tratta di una cultura che non chiede dei pre-requisiti. Pensiamo al rap, non c’è bisogno di saper cantare, suonare o essere intonati, tutto sta nella forza di ciò che si ha da esprimere. Credo però si debba evitare di trasformare anche il riferimento al meticciato come una sorta di appartenenza totale, visto che per chi vive questa condizione spesso si tratta di un handicap rispetto alla realtà circostante.

Cerco di muovermi sulla linea del contrappunto, come accade con la musica quando si combinano più melodie tra loro anche molto lontane, tenendo presente che c’è sempre un «centro». Solo così si può essere attori e testimoni delle diverse culture. In altre parole, aperti al mondo perché lo si vuole attraversare e conoscere davvero.

 

Alcuni link a video del rapper

(Petit Pays) www.youtube.com/watch?v=XTF2pwr8lYk

(Je pars)  www.youtube.com/watch?v=E2HWKGObM8Q

(Fils du hip-hop) www.youtube.com/watch?v=02O2lMSQMW4

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