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Ritorno a Reims, dagli anni cinquanta al nazionalismo

Ritorno a Reims, dagli anni cinquanta al nazionalismo

Intervista Il lavoro d’archivio di Jean-Gabriel Périot ricostruisce la storia della classe operaia francese

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 13 novembre 2021

«Quando la coscienza politica è scomparsa il nazionalismo è arrivato, in Francia è evidente ma credo sia un fenomeno rintracciabile in tutti i Paesi occidentali». Jean-Gabriel Périot sintetizza così uno dei nuclei centrali del suo film Retour à Reims, presentato alla Quinzaine des Réalisateurs a Cannes e ora in concorso a Filmmaker Festival. Uno scavo nel passato alla riscoperta di una storia che ci riguarda, quella della classe operaia dagli anni ’50 ai giorni nostri, interrogandosi con mente aperta, senza condanne né pregiudizi morali, sul perché delle tante trasformazioni avvenute e delle scommesse perse. Il film è tratto dall’omonimo libro di Didier Eribon e racconta il ritorno dell’intellettuale presso la casa di famiglia in seguito alla morte del padre – da qui il titolo – un’occasione per ripercorrere gli avvenimenti che hanno segnato l’esistenza dei suoi parenti e del gruppo sociale a cui appartenevano.

Périot ha scelto di estromettere gli aspetti più personali ed autobiografici del testo per concentrarsi sulla valenza politica della narrazione delle condizioni materiali e non solo dei lavoratori. Sulle loro facce leggiamo la fatica e la disperazione di non poter cambiare vita, vediamo le case senza i bagni, l’intimità inesistente. Le donne poi vivevano ulteriori problematiche come la necessità di abortire clandestinamente e la difficoltà di lavorare e gestire la casa allo stesso tempo. Retour à Reims ci parla di quanto la povertà sia inscritta, ieri come oggi, nelle cosiddette «società del benessere» occidentali ma anche della strenua resistenza che gli sfruttati hanno provato a mettere in campo contro di essa.

La voce narrante di Adèle Haenel ci conduce in questo passato prossimo alla ricerca di risposte di cui è forte l’esigenza oggi, il film è attraversato infatti da una corrente viva, dal bisogno di interrogare una storia che sembra passata di moda ma che è fondamentale per comprendere i nostri tempi. Al di là di alcune scene posizionate all’inizio e alla fine il documentario è composto di immagini d’archivio, risultato di un’opera di ricerca e di montaggio a cui il regista francese non è nuovo, del 2015 il suo lavoro Une Jeunesse Allemande che ricostruiva la storia della RAF. Lo abbiamo intervistato per approfondire le ragioni del suo lavoro.

Perché ha deciso di realizzare un film a partire dal libro di Didier Eribon?
Le mie origini appartengono alla classe operaia, come quelle di Eribon. Mi ponevo delle domande sul mio status di regista, visto che oggi difficilmente è previsto che chi pratica la mia professione possa provenire da un strato sociale basso. Dopo aver riletto il libro ho capito che farne un film sarebbe stata un’opportunità per raccontare di nuovo la storia politica e sociologica della classe lavoratrice e in qualche modo quindi anche della mia famiglia.

Il tema del razzismo diffuso nelle classi meno agiate è una delle questioni che emerge da Retour à Reims ed è molto importante in rapporto alla nostra contemporaneità.
Ho trovato molto interessante il modo in cui Eribon si è interrogato sul perché molte persone hanno spostato la loro adesione dal partito comunista alla destra o estrema destra. Una delle spiegazioni a cui è giunto è che gli esseri umani hanno bisogno di appartenere ad un gruppo, prima c’era un’evidente struttura in classi e le persone potevano facilmente identificarsi come lavoratori e lavoratrici. Io penso che la realtà sia la stessa oggi ma secondo la narrazione che riceviamo non è più così e l’idea della classe operaia si è via via dissolta. Le persone hanno allora cercato un altro modo per aderire ad un gruppo e il nazionalismo è diventata una possibilità per riconoscersi e unirsi. La Francia è un Paese colonialista e sicuramente il razzismo esisteva già, ma non era una categoria così efficiente nei termini in cui le persone si definivano.

Dal film sembra essere dirimente anche l’ascesa al potere di Mitterrand, sulla quale in molti riponevano grandi aspettative.
È un’altra delle spiegazioni per rendere conto di quanto successo, la gente ha smesso di credere e di votare per la sinistra perché c’è stato un tradimento. Quando il Partito socialista arrivò a governare la Francia negli anni ’80 venne meno alle promesse, non che le persone si aspettassero una rivoluzione ma volevano che le cose cambiassero dal punto di vista dell’economia e del funzionamento della società. Ci fu una grande delusione e fu molto chiara quando Mitterrand arrivò, ma credo non sia un fenomeno avvenuto solo qui: dal socialismo si passò alla socialdemocrazia, che divenne una forza politica quasi di destra nel modo di pensare. Credo che ci sia ancora la richiesta di politiche di sinistra da parte della gente, ma non ci sono partiti pronti a raccogliere queste istanze. Ad ogni elezione le persone si sentono tradite e spesso la scelta è tra votare l’estrema destra oppure non andare a votare. Tra pochi mesi avremo le elezioni presidenziali qui in Francia, ci sono sei candidati che dovrebbero appartenere alla sinistra ma il loro programma si limita a puntare sull’ecologia, che è sicuramente importante, ma nessuno parla delle condizioni dei lavoratori, della lotta alla povertà, del significato dell’uguaglianza. Un esempio calzante in questo è rappresentato dai gilets gialli: sono stati milioni di persone in tutto il Paese e in molti approvavano quel movimento, ma non c’è stato un solo esponente che abbia colto le loro istanze, non c’è stata alcun’eco nel sistema politico di quelle che erano state le richieste di una grossa fetta della popolazione.

«Retour à Reims» è composto principalmente da materiali d’archivio, come si è svolto il processo di ricerca?
È un processo che richiede del tempo ma non è il film più difficile che ho fatto da questo punto di vista, sia perché era in lingua francese sia perché il nostro Stato ha molto a cuore l’archiviazione, quindi c’è accesso ad una grande quantità di materiali. Quello che mi ha più sorpreso è che alcuni argomenti non venivano assolutamente rappresentati come le condizioni di vita delle domestiche o tutto ciò che concerne l’aborto, in questi casi la ricerca è stata complessa. Poi dagli anni ’80 c’è un grande cambiamento perché i lavoratori non vengono più mostrati in tv e al cinema. Infatti da quel punto in poi il film cambia molto proprio perché sono diversi i materiali esistenti. Quando il sistema politico decise di disfare l’idea delle classi, i politici smisero di parlare della lotta sociale e contemporaneamente i lavoratori sparirono dalla televisione. Riguardo il cinema è un po’ diverso, con la diminuzione del pubblico che frequentava le sale, il target si spostò verso la classe media. Con questo cambiamento, i film impegnati non trovarono più un posto nelle nuove logiche di produzione.

Ha aggiunto un epilogo alla storia non contenuto nel testo di Eribon, un segnale di speranza per le lotte future.
Volevo un finale ottimista mentre quello del libro è piuttosto deprimente: la sinistra collassa mentre la destra estrema prende la scena. Ho pensato di andare a vedere ciò che è successo dalla pubblicazione del libro a oggi, perché sono passati più di dieci anni. Devo dire che, seppure con delle fragilità, alcune cose sono accadute. In Francia abbiamo avuto i gilets gialli che rappresentano per me un nuovo capitolo della storia perché le persone in quel movimento provenivano principalmente dalla classe lavoratrice. Poi ci sono le lotte per l’ecologia e quelle delle realtà lgbtq+ e femministe, sorprendentemente questi gruppi stanno iniziando ad intrecciare i loro percorsi. Ancora non sappiamo fino a che punto le persone si uniranno e in nome di cosa ma possiamo dire che c’è un’energia, non siamo morti, una parte della società è ancora in movimento e questo è molto importante.

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