Ritorno a Homs la città del cuore
Middle East Now Film Festival Si presenta in anteprima a Firenze il film del regista siriano Talal Derki che segue due amici pacifisti nell'orrore della lunga guerra del suo paese
Middle East Now Film Festival Si presenta in anteprima a Firenze il film del regista siriano Talal Derki che segue due amici pacifisti nell'orrore della lunga guerra del suo paese
Preziose pulsazioni di cinema dalla Siria. Segnali, respiri, battiti: ora vitali, ritmici, ora mancanti, sospesi … che pure non possono fare a meno di propagarsi, al di là della cortina innalzata da tre anni di guerra ininterrotta, e oltre la nebulosa del racconto mediatico internazionale, spesso carente, parziale.
Return to Homs, documentario del regista siriano Talal Derki, giunge qui, oggi, in anteprima italiana a Firenze al Middle East Now FF (9-14 aprile), dopo una prima apparizione, passata non inosservata negli Stati uniti al Sundance, ma racchiude forme dell’autonarrazione che, come è accaduto in Egitto, Tunisia, Algeria – per fermarci solo al recente passato e ad alcuni dei paesi toccati dal flusso rivoluzionario arabo – si sono innestate quasi contemporaneamente all’accendersi della rivolta popolare (in Siria, marzo 2011), per poi fiancheggiare due anni di storia del Paese, sino al giugno 2013. Un cinema, dunque che, prima ancora che di dirsi, è urgenza di rassicurarsi circa l’essere in vita dei suoi partecipanti: leggero e armato solo di cellulare o telecamerina digitale – come in questo caso – si fa propaggine elettronica di uno sguardo sempre in pericolo e all’erta, esasperatamente teso a mimetizzarsi o a nascondersi, pronto a captare il precipitato inafferrabile del singolo istante, il darsi delle cose. Pure un cinema, la cui sola esistenza è attestazione non solo della possibilità di guardare a quello che c’è, per quanto desolante e distruttivo sia, ma anche di poter in qualche modo maneggiare eventi e vissuti incandescenti, per filtrarli alla luce rinfrescante di una distanza che, in quanto tale, può diventare anche detour, via d’uscita dal sistema coattivo e accecante della guerra. Nel caso della Siria, l’esplosione rimanda a 40 anni di storia nazionale, ammorbati dal regime della famiglia Assad, prima il padre e poi il figlio (dal 2000), nonché dall’oscurantismo del partito Ba’th. Una deflagrazione che nel corso di questi tre anni si irradia a aree sempre più ampie del Paese, tra cui Homs, uno dei luoghi dove fiorisce la protesta inizialmente pacifica dei giovani che cantano e danzano innanzi ai carri armati dell’esercito: per questo la chiamano «la città della rivoluzione». Dunque la strada verso Homs, quella che il regista, originario di Damasco, ha percorso tante volte per tornare a casa, senza immaginare che un giorno dell’agosto 2011 si sarebbe fermato lì a riprendere la protesta popolare, e senza sapere che quella sarebbe diventata la città del suo cuore, il suo desiderio del ritorno. È questa la tensione che attraversa tutto il film: in una sorta di mandala narrativo straniante e ipnotico insieme, dove l’inizio coincide con la fine e viceversa – proprio perché non c’è una fine, ma un continuo divenire – nelle prime immagini, Derki, presente in voce off, sta lasciando Homs e dispera di tornarci, salvo scoprire che sarà quel che resta della sua brigata di ribelli, che tenterà un’ennesima sortita per riprendersi i propri luoghi violati dall’esercito (i quartieri di Khalediya e Bayada). Cuore del doc sarà allora l’azione di due amici: Ossama Al Homsi, mediattivista pronto a qualunque rischio pur di rivelare al mondo i tarli del regime (come le riprese rubate alla «stanza della tortura» nell’ospedale militare), e Abdul Basset, stella del calcio siriano e della nazionale giovanile, riconosciuto secondo migliore portiere asiatico, leader trascinante anche tra le fila dell’Esl (Esercito Siriano di Liberazione). Saranno loro a tessere la visione duttile e partecipata del doc (operatore ora lo stesso Derki, ora Ossama, ora il produttore Nyrabia). Ragazzi. Gli anziani li avevano avvertiti, recita l’incipit su fondo nero del film: «Il paese affogherà nel suo sangue prima che Assad decada. Ma i giovani erano già oltre il punto di non ritorno». Oltre gli iniziali appelli all’esercito perché si unisse alla rivoluzione, oltre l’idea tanto cara a Ossama di un antagonismo pacifista (sul suo pc l’immagine un uomo armato solo della scritta «pace», trucidato dai soldati), l’accusa a Basset di terrorismo e il suo rifiuto di abiurare pubblicamente per tornare a fare il calciatore, oltre i bombardamenti che riducono a scheletro la casa di Ossama – dove ritrova una foto da piccolo coi suoi – oltre l’uccisione del fratello di Basset, la città infestata dai cecchini, dai checkpoint, l’omicidio di donne e bambini, gli sfollati, lo sguardo come specchio di macerie non ricomponibili, di prospettive perennemente destabilizzate, di cadaveri non più seppellibili: l’assedio. Oltre la visione di un bambino assassinato a Wadi Arab St il 29 gennaio 2012, nel qui e ora della sua morte, quando sia essere lì che non esserci è comunque insostenibile, quando con Susan Sontag sono infiniti gli interrogativi morali che ci attraversano, e tutti comunque insufficienti. (“Avvolti nei sudari/i bambini siriani/ sembrano caramelle da scartare/ non fatte di zucchero/ ma di carne/di sogno/di amore”, scrive Maram al Masri nel suo ultimo nucleo di poesie Arriva nuda la libertà, dedicata al suo Paese da cui è forzatamente lontana). All’inizio, quando muove il film, il regime aveva vietato la copertura mediatica di quanto avveniva, oscurando la rete dei social. Allora Basset, prima di essere ferito e avere un piede maciullato, e Ossama, prima di essere trattenuto dalla polizia di ritorno da un ospedale (di lui a oggi non si sa nulla), speravano ancora che il mondo, vedendo tutto questo, stesse con la Siria, che non li abbandonasse. Ora sanno che intorno a loro c’è «un silenzio tombale». E non importa quali siano le ragioni, se Return to Homs non approfondisce il contesto politico più ampio degli intersessi incrociati internazionali che hanno determinato l’entropia della situazione siriana, perché basta l’accenno ai soli 30 minuti di visita dei caschi blu Onu per dire tanto; il punto non è accennare alle ragioni economiche, alla lotta per il gas e ai ricatti globali, basta Basset con la sua rinuncia di ragazzo destinato a una vita ricca e celebre, Basset con la sua battaglia solo in nome della dignità e della libertà di chi ama.
maria_gro[/V_INIZIO]sso_dcl@yahoo.it
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