Ritornando brevemente a Genova
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
Si parla molto, troppo, di identità. Anche quando la parola non si nomina. Ciò che spinge a aderire astrattamente, ma visceralmente, a immagini di comunità, generi sessuali (stabili o fluidi), colori della pelle, idee supposte politiche, matrici culturali, genî dei luoghi…
I genovesi sono tirchi e scorbutici, “gente diversa”, come si impara orecchiando Dante a scuola. Odio e amore per la propria città.
Un centro storico meraviglioso in cui ci si incontra sempre, con amici e meno amici. Ecco un motivo, molti anni fa, che mi fece felice di andarmene altrove, dove non conoscevo quasi nessuno, Milano, Roma…
Costretto imprevedibilmente dai fatti della vita a tornarci – per un decennio aperto dalle violenze poliziesche del G8 e dall’11 settembre 2001 – mi ci sono riaffezionato. Contraddittoriamente. Sarà vero che il desiderio si sostiene sulla mancanza?
Ci sono andato due o tre giorni. Per caruggi a lungo vissuti. Via Prè, che corre all’ombra di una palazzata lungo la linea del mare e del porto antico, i portici di Sottoripa, piazza Campetto, i Macelli di Soziglia, via della Maddalena. Molte cose cambiano, ma tanto – non solo le pietre e certi volti di donne e uomini anziani – resta uguale e consola.
L’impressione che un miscuglio di culture e provenienze diverse sia più amalgamato. Le targhe delle macellerie che annunciano cibi dall’Asia, dall’Africa e dal Sud America invecchiano. Una si chiama «Mi Tierra». Una antica insegna di marmo con la scritta scolpita e ricamata “Latteria” espone in vetrina un bel caffetano azzurro e altri tessuti coloratissimi. Nel negozio si intravvede qualcuno che taglia e cuce.
Smania di fotografare tutto. Molte scritte anarco-femministe. Manifestini che legano l’esplosione del turismo alla militarizzazione dello Stato. (In effetti la «polizia locale» con i giubbotti antiproiettile – almeno sembrano tali – le armi in bella evidenza e i cappellini all’americana fa effetto).
Sui palazzi dell’Università in via Balbi corre la scritta «Tenetevi la ragione, agiremo in torto”».
In via di San Pietro della Porta ho notato per la prima volta una piccola iscrizione in marmo «Ellemosine per nostra Signora della Guardia. 1729». Sopra, una scura lastra di metallo con due fessure per mettere le monete. Alzando lo sguardo si vede una bellissima edicola barocca con la Madonna particolarmente amata dai genovesi. Nel 1729 esisteva ancora la «Magistratura della misericordia», istituita tre secoli prima per favorire una po’ di redistribuzione ai poveri delle enormi ricchezze dei signori della città.
Ho dormito in un alberghetto tra Via Prè e via Gramsci il cui nome gioca sul rosso e sul “blues”, colori genovesi, evocando la musica. Uno dei due simpatici gestori, copiosi riccioli grigi e faccia ormai genovese (è arrivato da un’altra località del Nord) è stato un chitarrista di rock «duro», dice non senza compiacenza.
E le stanze sono arredate con magnifiche chitarre elettriche appese al muro, e teorie di vinili le cui etichette parlano di ogni buona musica, da Mozart e Schubert ai Pink Floyd. Tra le molte foto il sorriso sornione di Andrés Segovia, quello ammiccante di Frank Sinatra, e le immancabili immagini di Fabrizio De André.
Mi ha offerto non solo il caffè e l’acqua minerale («due cose che dovrebbero sempre essere gratis») ma anche una copia vinile di un disco che ha inciso negli anni ’90. Lo ascolterò con grande interesse.
Una sera, festa di compleanno a sorpresa per un carissimo amico. La terrazza in cima al Museo del mare, a sorpresa, non guarda il golfo e la Lanterna, ma la altissima «Genova verticale» che sale sulle colline, ripercorsa da Giorgio Caproni. Mai vista così bella.
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