La prima operazione che bisognerebbe effettuare, parlando di Arthur Rimbaud, è quella di affrancarlo da una serie di stereotipi che, con il tempo, si sono depositati sulla sua figura come incrostazioni su una conchiglia rara. Si pensi, ad esempio, alla definizione, affibbiatagli da Verlaine, di homme aux semelles de vent, che continua a imperversare senza tregua perfino negli scritti esegetici più ricercati. E certo non aiuta l’esistenza stessa dell’autore, spesa, con foga parossistica, alla ricerca di una dimensione salvifica dai contorni irrazionali, come quella di un funambolo che orienti sull’abisso i propri passi sapendo di essere irrimediabilmente destinato a cadere. Rimbaud è diventato una sorta di feticcio del modernismo e della sovversione, con la deplorabile conseguenza che spesso la biografia, con i suoi addentellati che sembrano costituire il perfetto archetipo del poète maudit, tende subdolamente a surclassarne l’opera.
Nel nostro paese appare periodicamente qualche nuovo lavoro di traduzione, mantenendo salda una tradizione che annovera innumerevoli confronti, non sempre di taglio ineccepibile. Marsilio ora licenzia, a cura di Olivier Bivort e con traduzione di Ornella Tajani, un ponderoso volume contenente le Opere («Letteratura universale», pp. 856, € 20,00), con testo originale a fronte; le versioni dei brani in latino sono di Emilio Pianezzola. Il criterio adottato è quello della presentazione cronologica dei testi, sulla falsariga dell’edizione francese delle Œuvres complètes condotta da André Guyaux, con la collaborazione di Aurélia Cervoni, per la «Pléiade» gallimardiana nel 2009 che accoglie anche qualche inedito, qui riproposto. Molto accurato è l’impianto filologico, basato sulla consultazione dei manoscritti, non sempre sopravvissuti ai periodici autodafé allestiti dall’autore che, insofferente alla resa dei propri versi, preferiva condannarli alla damnatio memoriae.
Nell’introduzione, Bivort asserisce: «L’azione di Rimbaud ai danni del verso francese tradizionale è stata esemplare: incrinature nella regolarità e nella simmetria del metro, strappi al sistema delle rime, abbandono della cesura canonica, alterazione della quantità delle sillabe. I versi del 1872 rappresentano il punto più avanzato di tale disfacimento: dedicandosi a ricerche ritmiche e a effetti sonori vicini al modello della canzone popolare, egli usa versi brevi, sostituisce la rima con l’assonanza, mescola misure diverse, spingendo le proprie ricerche tonali fino a eliminare del tutto la punteggiatura da alcuni componimenti, ben quarant’anni prima che, sulla scia di Apollinaire, questa pratica divenisse consuetudine della poesia moderna».
Le traduzioni si basano su una dichiarata fedeltà all’originale, con il tentativo di avvicinarsi per approssimazione a quelli che Bonnefoy aveva definito «ritmi zoppicanti e travolgenti», cercando di attualizzare la professata Alchimie du verbe. Osserva la traduttrice: «Riconoscere il ritmo, provare a renderlo in italiano – provare, giacché, come sempre, in traduzione, non si può parlare d’altro che di tentativi, di ripetute prove d’avvicinamento e di decentramento: la traduzione è un esercizio di prossemica, una ricerca della distanza, al contempo impossibile e reale, che separa il testo dato da quello in fieri». E ancora: «In un sonetto così straziantemente rimbaldiano come La mia Bohème, ad esempio – in cui Rimbaud si ingegna nel disordinare la regolarità dell’alessandrino –, il ritmo della marcia, del camminare, è il primo elemento a trasmettere l’amore per l’erranza, il ricordo del vagare, il desiderio di andare: la forma significa ancor prima del contenuto. Ho dunque provato a conservare al meglio gli accenti ritmici, senza modificare la punteggiatura, avendo cura di rispettare gli enjambements che legano un verso all’altro, concatenando le immagini e restituendo una sorta di passo molleggiato, come di qualcuno che affondi con i piedi nell’erba».
Pur riconoscendo un indubbio valore a un progetto così complesso e articolato, non sempre convince il proposito di voler distinguere a tutti i costi le versioni di alcuni passaggi cruciali dalle lezioni accolte in passato, con il risultato di appiattire la resa dirompente dell’originale. Nella cosiddetta Lettera del veggente, ad esempio, «le dérèglement de tous les sens» diventa «lo sfasamento di tutti i sensi», soluzione indiscutibilmente corretta, ma certo non elegante quanto quelle, pur datate, proposte da Ivos Margoni («il disordine di tutti i sensi») o Gian Piero Bona («lo sregolamento di tutti i sensi», un endecasillabo di quinta). Nel Battello ebbro il verso finale della penultima quartina che recita «Un bateau frêle comme un papillon de mai» è reso con un farraginoso «Un battello lieve come in maggio una farfalla» mentre Diana Grange Fiori, che pur non brilla per le soluzioni stilistiche adottate, riporta «Il suo battello, tenue come farfalla a maggio» mentre Dario Bellezza opta, in maniera ancor più efficace e musicale, per «un fragile battello come una farfalla di maggio». Ma perché non rendere semplicemente con il martelliano «Un fragile battello come farfalla a maggio»? E perché non azzardare, con tali presupposti, il plausibile titolo La barca ubriaca?
Non rende inoltre giustizia alla modernità dell’assunto rimbaldiano il continuo ricorso all’apocope che crea effetti stranianti di taglio carducciano. Citando un po’ a casaccio segnaliamo «Questi vecchi son sempre intrecciati ai sedili» (I seduti), «Sentiran piovere le tue maledizioni» (Le prime comunioni), «Per terra arrivan le foglie» (Feste della fame), «Se il mio mal si rassegna» (Commedia della sete) ecc. Più persuasive appaiono altre soluzioni, come quella di rendere la «Vierge folle» – associata alla figura di Verlaine, contrapposta allo «Sposo infernale» Rimbaud, presente nel primo brano di Deliri in Una stagione all’inferno – con «Vergine stolta» anziché con il letterale «Vergine folle», come generalmente adoperato quasi unanimemente nelle versioni precedenti. Vi è infatti il riferimento evangelico alla parabola delle dieci vergini che compare in Matteo, 25, 1-13 (si vedano al riguardo anche le Prose dette «evangeliche», con intenti parodici), anticipato nella trasposizione del citato Margoni.
Non mancano esiti risolti come il sonetto La mia Bohème, con una distribuzione equilibrata e naturale delle strofe che rende la concatenazione delle immagini continuamente oscillante tra basso e sublime («tasche bucate» contro «cielo, Musa»; «brache» con «buco» contro «Il mio albergo era l’Orsa»; «rugiada» contro «vino»; «ombre» e «lire» contro «le stringhe / alle scarpe ferite») quanto mai avvincente, con il suggello di quel «piede sul cuore» che compendia mirabilmente l’asperità di tali dicotomie. L’ultimo verso della prima terzina, corrispondente a «comme un vin de viguer», viene rovesciato nel più che accettabile «col vigore d’un vino».
I prosimetri di Una stagione all’inferno e le prose delle Illuminations, ispirati ai modelli di Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand e dello Spleen de Paris baudelairiano, si configurano come il terreno più confacente alla restituzione di un dettato claudicante e allucinato, che sembra anticipare gli stilemi surrealisti («Sulle passerelle dell’abisso e i tetti delle locande l’ardore del cielo decora le aste» di Città I non sembra già Éluard?). Molto ridotta poi appare la sezione delle Lettere scelte che si limita a rappresentare soltanto il periodo «creativo» di Rimbaud che va dal 1870 al 1875 mentre sarebbe stato preferibile accogliere anche altre missive, comprese quelle indirizzate alla famiglia dai vari ricoveri africani, in cui traspare un sottofondo di désespoir represso, combattuto con le armi di un attivismo febbrile che, al pari della sua poesia, ha tratti inquietanti e inclassificabili. Non aveva forse profetizzato, nella citata Lettera del veggente, che bisogna diventare «un altro»?