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Risorse e rendition, confine sfumato

Risorse e rendition, confine sfumatoMukhtar Ablyazov – Reuters

Kazhakistan - Italia Una morsa del ragno che comincia con la repressione dei lavoratori nella piana di Zhanaozen il 16 dicembre 2011 e si chiude il 31 luglio 2013, nemmeno due mesi dopo l’extraordinary rendition della moglie del banchiere kazako e dissidente Mukhtar Ablyazov

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 25 novembre 2013

E’ la notte del 16 dicembre 2011, e nella cittadina di Zhanaozen, già nota con il nome russo di Novy Uzena quando nel 1968 il Pcus sovietico la crea dal nulla a ridosso degli immensi impianti di estrazione di petrolio e gas naturali, si festeggiano i venti anni di indipendenza del Kazakistan.

Ma non è una festa qualunque, a maggio gli operai di Zhanaozen hanno cominciato un lungo sciopero per reclamare diritti e un salario più dignitoso: il reddito procapite kazako in questi vent’anni è aumentato a dismisura, ma certo non sono stati i lavoratori a beneficiare di questa crescita. La KazMunaiGaz, compagnia statale petrolifera kazaka, in tutta risposta ha licenziato oltre 100 operai a Zhanaozen, e il 16 dicembre da Astana parte l’ordine di far intervenire l’esercito.

Dopo due giorni di battaglia i corpi dei lavoratori sul selciato si contano a decine, la sommossa è stata repressa, il presidente Nursultan Nazarbayev, già segretario del Pcus per il Kazakistan nel 1989 e ininterrottamente presidente dal 16 dicembre 1991, giorno dell’indipendenza kazaka dalle macerie sovietiche, può tirare un sospiro di sollievo: il vento delle primavere arabe non soffierà nelle repubbliche ex-sovietiche del centroasia.

E’ la notte del 28 maggio 2013, e intorno a una villetta monofamiliare di Casal Palocco, agiato sobborgo periferico a sud di Roma, si muovono strani personaggi: guardie del corpo, investigatori privati, uomini dei servizi segreti italiani e internazionali.

Improvvisamente una quarantina di uomini armati della Digos fanno irruzione nella villetta, mettono tutto a soqquadro, portano via pc, chiavette e memory card delle macchine fotografiche; portano via anche una signora che mostra un passaporto centrafricano diplomatico dove risulta chiamarsi Alya. Dopo un breve soggiorno nel Cie romano di Ponte Galeria, il pomeriggio del 31 maggio la donna è obbligata a salire su un aereo che da Ciampino è in partenza per Astana insieme a sua figlia di sei anni, la piccola Alua.

La donna è Alma Shalabayeva, moglie del banchiere kazako e dissidente Mukhtar Ablyazov, il presidente Nazarbayev può tirare un sospiro di sollievo, il cerchio sta per chiudersi, l’opposizione interna sta per essere definitivamente sgominata, questo risultato vale molto di più del 95% ottenuto alle ultime elezioni del 2011.

In Italia responsabili di quella che l’Onu definisce senza mezzi termini una extraordinary rendition, resa ancora più grave dal forzato rimpatrio di una bambina di sei anni in spregio a ogni convenzione internazionale, risultano essere due funzionari vicini alla pensione. Ottiene invece decisivi scatti di carriera per la promozione il capo dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma, che in soli tre giorni ottiene una certificazione di falsità del passaporto centrafricano (poi risultato vero), un inusitatamente rapido decreto di espulsione, e un aereo battente bandiera austriaca con i motori rombanti sulla pista di Ciampino prima ancora che il sostituto procuratore vidimi il decreto, senza peraltro accorgersi che la donna è una rifugiata politica e quindi non può essere espulsa, come sottolineano tutti i file dell’Interpool in possesso della Questura e del suo ufficio.

Il governo delle larghe intese si schiera compatto a difesa dell’operato di ministri e prefetti, e nessuno si scandalizza che in quei tre giorni sia al ministero dell’Interno che in Questura una serie di strani personaggi con passaporto kazako stesse conducendo le danze e prendendo le decisioni, esautorando de facto lo stato di diritto italiano.

Ma in questa storia i confini non sono quelli tristi e asserviti di una piccola e povera patria. Sono eurasiatici, sono colorati dal grigio metallico degli oleodotti e dei gasdotti del corridoio Central Asia, che dalle repubbliche dello -stan si congiunge all’ucraino Soyuz per tenere in vita l’Europa e le sue insegne luminose; sono colorati dell’argento biancastro dell’uranio, di cui il Kazakistan è uno dei tre grandi produttori mondiale.

Certo lʼEni, è una delle compagnie che maggiormente opera in Kazakistan, attiva dal 1992, continua a stringere accordi di cooperazione con il regime di cui lʼultimo è del 2012 per lʼimmenso giacimento di Karachaganak. Certo, Silvio Berlusconi con il dittatore kazako Nazarbayev si è pubblicamente accompagnato spesso e volentieri, definendolo un grande amico suo e dell’Italia. Certo Romano Prodi negli ultimi anni si è recato diverse volte ad Astana, che fa parte dell’advisory board di Nazarbayev, una camera di consiglio privata, e lautamente retribuita, di cui fanno parte anche l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder, il suo omologo austriaco Alfred Gusenbauer, l’ex premier britannico Tony Blair e quello polacco Aleksandr Kwaniewski.

Perché Nazarbayev ha molti amici, e non sopporta i nemici. A partire da Mukhtar Ablyazov, marito di Alma Shalabayeva e padre della piccola Alua, già ministro degli Esteri dello pseudo governo di Nazarbayev, già incarcerato in Kazakistan e torturato nel 2002 perché aveva osato fondare un partito politico di opposizione, e poi fuggito a Londra nel 2009 con l’accusa di appropriazione indebita di svariati miliardi nella fallimentare gestione della BTA Bank kazaka.

E così, ancor prima della rendition in salsa italiana, il 23 gennaio 2012 è arrestato ad Almaty Vladimir Kozlov con l’accusa di avere fomentato la rivolta di Zhanaozen tramite il suo partito di opposizione Alga!. L’11 dicembre del 2012 è arrestato a Madrid Aleksandr Pavlov, ex capo delle guardie del corpo di Ablyazov e detentore di molti segreti e altrettanti codici cifrati, nei cui confronti il tribunale spagnolo emette l’8 novembre un’ordinanza di estradizione verso il Kazakistan, su pressioni dei servizi segreti spagnoli che hanno confezionato un documento ad hoc e pieno di imprecisioni in cui è descritto come un pericoloso terrorista.

Mentre è dal 10 aprile 2011 che la russa Tatiana Paraskevich, manager della compagnia d’investimento Eurasia ed ex collega in affari con la banca BTA di Ablyazov, rischia l’espulsione dalla Repubblica Ceca dove il governo è tallonato da Russia e Ucraina che ne chiedono l’estradizione. Il 12 giugno 2013, due settimane dopo il blitz romano, è stato arrestato a Lublino in Polonia un altro ex collaboratore di Ablyazov e fedele alleato di Kozlov nel partito Alga!, Muratbek Ketebayev, e paradossalmente la Polonia sembra quella più decisa a negare l’estradizione verso Russia e Ucraina anche grazie allo strenuo lavoro della ong Open Dialog.

Una vera e propria morsa del ragno che comincia con la repressione dei lavoratori nella piana di Zhanaozen il 16 dicembre 2011 e si chiude il 31 luglio 2013, nemmeno due mesi dopo l’extraordinary rendition subita dalla moglie e dalla figlia, quando la polizia francese arresta proprio lui: Mukhtar Ablyazov, che oggi si trova in un carcere di Aix-en-Provence da cui con tutte le sue forze sta cercando di non uscire.

Anche su di lui pende ovviamente una tripla richiesta di estradizione: kazaka, russa e ucraina. I tre paesi cuore e motore dei nuovi confini eurasiatici, tutti interessati ad avere tra le mani l’uomo che i cablogrammi di WikiLeaks dipingono come ‘kompromat’: termine russo che serve a definire colui che sa, che conosce materiale compromettente. E qui al solito non si tratta di politica interna kazaka, o degli affari di Nazarbayev e della sua cerchia, allargata agli amici ex premier europei, piuttosto di relazioni di affari a livello globale, cui la politica di ogni colore s’inchina, e dove i nuovi confini hanno i colori del petrolio, del gas e dell’uranio.

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