«Rischiamo la vita per difendere la terra ma andiamo avanti per la nostra strada»
La regione del Bajo Atrato (basso Atrato) prende il nome da uno dei grandi fiumi della Colombia che scorre nella parte nord occidentale del paese prima di immettersi nell’Oceano Atlantico […]
La regione del Bajo Atrato (basso Atrato) prende il nome da uno dei grandi fiumi della Colombia che scorre nella parte nord occidentale del paese prima di immettersi nell’Oceano Atlantico […]
La regione del Bajo Atrato (basso Atrato) prende il nome da uno dei grandi fiumi della Colombia che scorre nella parte nord occidentale del paese prima di immettersi nell’Oceano Atlantico con il suo vasto delta : per la sua ricchezza di risorse e la sua posizione strategica è stata una delle zone più colpite dal conflitto armato. Solo in questa regione furono più di 8 mila i contadini costretti ad andarsene negli anni ’90, quando i membri delle AUC ( Autodefensas Unidas de Colombia, gruppo paramilitare fra i più tristemente famosi per la loro ferocia) sferrarono un violento attacco allo scopo di impossessarsi dei corridoi del narcotraffico anteriormente controllati dai guerriglieri delle FARC e ENL.
Jorge Mercal era uno di questi contadini. La legge 70 del 1993 riconosce il diritto alle comunità afro- colombiane di possedere collettivamente (sotto forma di Consigli Comunitari) terre sulle quali hanno diritti ancestrali: nel 2000 vennero assegnati 48 mila ettari al Consiglio Comunitario di Pedeguita-Mancilla dove Jorge è tornato ma dove i problemi non sono mai terminati. Poco più di un anno fa la difesa di queste terre è costata la vita a un amico di Jorge, Hernan Bedoya. Ucciso a fucilate in pieno giorno mentre tornava a cavallo a casa sua. Ora la sua lotta è portata avanti dal giovane figlio,Cepe Bedoya. Li abbiamo incontrati nel municipio di Belén de Bajira.
Quando siete arrivati in queste terre?
(J.M.) Sono arrivato nel 1973 insieme a mio padre e ai miei 18 fratelli, alla ricerca di terreno da coltivare. Queste terre erano abbandonate e selvagge: quando chiedemmo di chi fossero, ci risposero che erano di chi le poteva lavorare. Eravamo un gruppo di 40 persone, dividemmo in lotti un’area di circa 300 ettari: ci coltivavamo il riso, ci tenevamo galline, maiali e qualche mucca, tagliavamo quel poco di legna che ci serviva; intorno la palude, eravamo circondati da acqua e da una fitta vegetazione piena di animali selvatici.
Quando e perché ve ne siete dovuti andare?
(J.M.) Verso ottobre del 1997 cominciarono gli assassini dei capi di comunità. Vittime dello scontro fra i paramilitari delle AUC e i guerriglieri. Sono sincero, i guerriglieri ci sono sempre stati in queste zone, avevano gli accampamenti, li vedevamo transitare e a noi contadini non hanno fatto mai nulla. Invece i paramilitari sì, e spesso in collaborazione con l’esercito. Ce ne siamo dovuti andare. Ci siamo divisi, io prima da una parte, poi in città, sopravvivendo con pochi pesos al giorno. Soffrivamo molto. Alcuni fratelli miei hanno venduto le terre, io no: non ho mai voluto ricavare soldi dalla vendita della terra, io sono un campesino, l’unica cosa che voglio è un po’ di terra da coltivare. Per questo sono tornato, più di una volta. Nel 2002 c’era ancora tantissimo bosco, ma abbiamo trovato anche molti terreni trasformati in pascoli. Non è stato facile rientrare, tutto attorno a noi avanzava il terreno messo a pascolo e le coltivazioni di palma da olio, ci siamo dovuti installare in una zona limitrofa. Nel 2007 ci siamo organizzati e con l’aiuto della Commissione di Justicia y Paz e di organizzazioni internazionali e abbiamo rimesso piede nelle terre che ci spettano e che però dobbiamo continuare a difendere.
Difendere da cosa?
(J.M.) Non siamo mai stati tranquilli. Ci siamo imbattuti in gruppi di uomini armati di machete che ci impedivano l’accesso ai campi. Abbiamo subito ripetute invasioni: blitz notturni durante i quali venivano a dare fuoco alle piante di banano e abbattevano gli steccati per fare entrare il bestiame che ci mangiava tutto il riso. Ci attaccano per farci andare via un’altra volta e prendersi le terre. Secondo la legge noi abbiamo il diritto di abitare e coltivare queste terre e il dovere di conservare gli habitat naturali: ciononostante vengono comprate abusivamente e deforestate in maniera incontrollata. Questo perché il rappresentante legale del Consiglio Comunitario, colui il quale ha l’incarico di autorizzare o meno l’assegnazione dei terreni per le persone dei Consiglio ed eventuali processi produttivi, è in combutta con imprenditori agricoli che non hanno niente a che fare con il Consiglio e a cui vengono ceduti pezzi di territorio.
Cepe, perché tuo padre è diventato un bersaglio?
(C.B.) Nel 2014 era evidente come nel Consiglio Comunitario di Pedeguita e Manzilla stavano mettendo piede persone estranee al territorio. Grandi imprenditori che lo stavano riempiendo di palma da olio, banana e bestiame e non rispettavano la zona protetta. In questi anni hanno tagliato più di 160 ettari di bosco primario. Mio padre ha denunciato quello che stava succedendo, facendo nomi e cognomi, in particolare quello dell’attuale rappresentante legale che favoriva questi processi e che a sua volta si sta occupando di un progetto agroindustriale con la banana. Ha cominciato a ricevere minacce, anche dal rappresentante legale, gli diceva che lui era il sasso nella scarpa. Poi è stato ucciso.
I responsabili sono stati individuati? La tua famiglia è ancora in pericolo?
(C.B.) Mio padre è stato ucciso da membri delle AUG, un gruppo neo-paramilitare discendente diretto delle AUC, attualmente il gruppo armato illegale più numeroso della Colombia. Secondo le Justicia y Paz queste persone agiscono a sostegno dei progetti agroindustriali portati avanti in questo territorio. La mia famiglia a causa di questo connubio è stata sfollata due volte, nel 1997 e nel 2011. Per questo, quando siamo tornati per la terza volta, ha voluto lottare. Inoltre mio padre era un ambientalista, diceva che non bisogna tagliare gli alberi, mi ha insegnato l’importanza di rispettare la natura. Io ho deciso di seguirlo: viaggio, partecipo a riunioni, faccio parte di Justicia y Paz, visito gli altri sfollati. Voci su di me e mio fratello dicono che ci uccideranno entrambi, la polizia ha ricevuto un’allerta su di noi. Ma per il momento non è ancora successo niente e io vado avanti per la strada che mio padre mi ha indicato.
CEPE E’ ARRIVATO ALL’APPUNTAMENTO in compagnia della scorta. Anche il padre usufruiva di misure di protezione: un gilet anti-proiettile ed un telefono, che evidentemente non sono state sufficienti. Affinché possa vedere con i miei stessi occhi quello che sta succedendo, Jorge mi porta alla palude. Un bosco inondato di acqua, rigoglioso e fittissimo che a un certo punto si interrompe bruscamente per lasciare spazio a delle coltivazioni di banana. In lontananza il rumore di una motosega. Si sente anche un rimbombo poderoso, come quello di un temporale in arrivo: sono le scimmie urlatrici che vivono nella palude. Non ci soffermiamo molto, Jorge preferisce non farsi vedere. Assieme a Justicia y Paz ha sporto numerose denunce e sa bene cosa comporta mettere il bastone fra le ruote a persone che si avvalgono anche di gruppi paramilitari per compiere i loro soprusi.
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