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Risarcimenti, uno stillicidio di incidenti

In-civile E le assicurazioni ci provano

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 13 marzo 2014

A fine 2013, il famoso decreto «Destinazione Italia – e quindi il governo Letta – aveva provato a modificare i termini per presentare la richiesta di risarcimento danni da incidente stradale. Lo sapevate? La norma desiderata abbatteva da 2 anni a 90 giorni il tempo utile, a pena di decadenza, e imponeva di indicare i testimoni del fatto sin dalla denuncia del sinistro. Fortunatamente, il parlamento ha bocciato la proposta in sede di conversione in legge del decreto e, per ora, non se ne farà nulla. Ma possiamo stare certi che le assicurazioni ci riproveranno.

Nel frattempo, ecco una carrellata di pronunce sullo spinoso capitolo dei risarcimenti alle vittime – dirette o indirette – degli incidenti.

La prima ci viene dalla Corte di Cassazione, Terza sezione civile, presidente Giuseppe Salmé. La pronuncia è stata depositata il 10 marzo scorso ed è stata pubblicizzata da «Sentenze odierne FanPage», un servizio utilissimo a chiunque si interessi di giurisprudenza. Trovate la pagina corrispondente su Facebook. Allora, con la sentenza 5509, i giudici di legittimità stabiliscono che il figlio non ancora nato ma già in gestazione al momento del fatto ha diritto al risarcimento di tutti i danni, compresi quelli morali, derivanti dalla morte del padre in un incidente stradale. Quel che importa è «che anche il soggetto nato dopo la morte del padre naturale, verificatasi per fatto illecito di un terzo durante la gestazione, ha diritto nei confronti del responsabile al risarcimento del danno per la perdita del relativo rapporto e per i pregiudizi di natura non patrimoniale e patrimoniale che gli siano derivati», come è scritto nelle motivazioni. Perciò il figlio dovrà essere risarcito anche per il danno morale subito dalla perdita del padre. Unico neo di tante belle parole sono le date: l’incidente stradale che sta a fondamento della causa, pensate un po’, avvenne nel 1990. E la sentenza d’appello che è stata cassata, richiedendo perciò un nuovo processo di secondo grado, è del 2009. Meno male che sono previsti gli interessi: su una base ipotetica di 100 mila euro di risarcimento, per un quarto di secolo, gli interessi consentono quantomeno di raddoppiare la somma.

Una bella sommetta è stata stabilita anche per ognuno dei componenti la famiglia che ha perso il marito-padre. Il tribunale di Taranto, con la sentenza 1694/13, ha concesso questa cifra, poiché nella «valutazione equitativa del danno non patrimoniale deve rientrare la giovane età della vittima e la grave perdita per i figli piccoli e la moglie». In questo caso, sembra di capire che ogni familiare faccia conto a sé.

Restando sui risarcimenti, ma spostandoci dalla strada alla fabbrica, ecco una bella pronuncia ancora dei giudici di legittimità, sezione lavoro, sul caso di un operaio dipendente da un’azienda di Bergamo che in primo grado era stata condannata a pagare il danno biologico e morale per un’esposizione all’amianto. Il 24 gennaio, la suprema corte ha confermato che, se il lavoratore deve provare il nesso fra il danno e la nocività dell’ambiente di lavoro, tuttavia permane l’onere del datore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica del dipendente. Il diritto al risarcimento esiste anche se l’esposizione all’amianto non è stata prolungata. Ancora sul lavoro, ma questa volta più che di riparazione si tratta di costituzionalità. Sotto la lente è il rito Fornero, ovvero lo sdoppiamento del processo del lavoro che tante perplessità suscita nell’avvocatura, sia quella che difende i lavoratori, sia quella che difende i datori. Dal tribunale di Milano è partita il 27 gennaio un’ordinanza di rimessione che chiede alla Consulta di decidere se e come sia possibile non prevedere l’incompatibilità del giudice tra fase sommaria e opposizione, visto che non si impone l’obbligo di astensione al magistrato che si è già pronunciato.

 

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