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Ripresa sì, ma che sia green

L’Europa metterà a disposizione 1.850 miliardi di euro attraverso il proprio bilancio e i fondi per la ripresa (recovery funds), ma è fondamentale che questi fondi non vadano ad industrie […]

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 30 luglio 2020

L’Europa metterà a disposizione 1.850 miliardi di euro attraverso il proprio bilancio e i fondi per la ripresa (recovery funds), ma è fondamentale che questi fondi non vadano ad industrie inquinanti come quella del gas e del petrolio, le compagnie aeree e l’agricoltura industriale.

Prima che questa terribile pandemia sconvolgesse le nostre vite, infatti, il nostro Pianeta era già «malato»: pensiamo alla distruzione delle ultime foreste pluviali, agli allevamenti intensivi, al commercio di armi e ai cambiamenti climatici, all’inquinamento atmosferico nelle città o all’invasione della plastica usa e getta. La ripartenza post Covid è un’occasione storica che non possiamo sprecare. Per questo chiediamo al Presidente del Consiglio Conte e ai leader europei di usare i fondi europei per un futuro che metta le persone e il Pianeta prima del profitto, investendo su salute, educazione, energie rinnovabili, green jobs, agricoltura ecologica e trasporto pubblico.

Se l’accordo raggiunto in sede europea sul Recovery Fund è per molti versi «storico» sul piano politico e per la sua dimensione economica, il suo contenuto è però deludente: la svolta verde è troppo debole e il rischio è che ingenti risorse finiscano per essere destinate alle vecchie attività inquinanti. Una analisi di Energy Policy Tracker mostra come finora la reazione dei governi alla crisi economica abbia premiato le fonti fossili che incassano un 56% di fondi a fronte del 33% per le rinnovabili.

Focalizzando l’attenzione su Germania, Francia e Italia, si nota che la quota destinata alle fonti fossili sale a circa il 58%, con 40 miliardi di sussidi contro i 29 indirizzati alle rinnovabili. L’Italia, poi, segna il risultato peggiore: tutti i sostegni energetici sono andati al fossile per una quota di circa 3,3 miliardi. Il punto politicamente più debole è stato quello di non aver imposto una lista di esclusione per impedire che gli aiuti economici andassero a industrie inquinanti (come sostenuto dal ministro per l’Ambiente Costa) e di non aver impedito la riduzione dei fondi alla salute, alla ricerca e al clima. Se, dunque, nell’accordo è stato stabilito che il 30% dei sussidi deve essere orientato per combattere la crisi climatica, nulla impedirà che altri fondi vadano a finanziare le cause dei cambiamenti climatici. Non possiamo permetterci questa politica contraddittoria.

Secondo l’accordo, poi, l’accesso alla metà del fondo di «transizione giusta» di 7,5 miliardi di euro, dipenderà dal sostegno all’obiettivo dell’Ue di «neutralità climatica» entro il 2050, e sarà guidato dal Green Deal che, però, risulta già insufficiente per centrare gli obiettivi fissati dall’Accordo di Parigi. Altri segnali poco incoraggianti sono il taglio da 10 a 7,5 miliardi di euro di sussidi per lo sviluppo rurale in linea col Green Deal e la riduzione da 30 a 10 miliardi per lo stanziamento supplementare degli aiuti per sostenere i territori più in difficoltà sulla transizione ecologica. Nessuna garanzia di una ripresa più ecologica e più giusta, dunque, ma un serio rischio di verniciare con un po’ di verde le vecchie politiche fossili.

* direttore Greenpeace Italia

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