Nel 1954, in occasione del centenario della nascita dell’autore di Une Saison en enfer, l’editore milanese Vanni Scheiwiller pubblicò un singolare Omaggio a Rimbaud, contenente il contributo di alcuni importanti poeti italiani, fra cui Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sereni, Luzi, Penna, Rebora, Sbarbaro e Sinisgalli. Allegato al volumetto figurava, proposto in facsimile, il biglietto da visita dello stesso Rimbaud stampato in occasione del suo viaggio a Milano. Sotto il cognome preceduto dall’iniziale del patronimico, impressi con anomali svolazzi, era presente l’indirizzo, riportato manualmente dal poeta: «39. Piazza del Duomo. Terzo piano. Milano».
Edgardo Franzosini non fa riferimento a questa pubblicazione nel suo Rimbaud e la vedova (Skira, pp. 96, € 12,90), sorta di singolarissima ricognizione compiuta alla ricerca di qualche traccia del passaggio effettuato a Milano dal poeta tra aprile e maggio del 1875. Si tratta di un libro elegante sin dalla grafica (la copertina riproduce il ritratto immaginario compiuto da Giacometti nel 1962, con il felice contrasto tra nero, bianco e azzurro ispirato, forse, al sonetto delle «vocali»), molto documentato e godibile, in virtù soprattutto dello stile di Franzosini che non indulge mai a lungaggini di stampo accademico ma si orienta, in maniera circostanziata e accorta, verso un approfondito esame dei documenti che possono fare da sfondo a questa vicenda. I quali, peraltro, si riducono ai minimi termini, a cominciare dal bristol succitato di cui Ardengo Soffici, autore della prima monografia italiana sul poeta di Charleville (1911) dedicata «Alla ignota signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud, affamato vagabondo per l’Italia», ricevette tre riproduzioni fotografiche da Georges Izambard.
Appartenente a Soffici?
E d’altro canto apparteneva a Soffici, incluso tra i poeti selezionati, la copia riprodotta nel volumetto scheiwilleriano? E chi ha messo a disposizione l’esemplare presente a pag. 124 dell’Album Arthur Rimbaud, edito da Einaudi-Gallimard nel 1992, che differisce, rispetto a quello proposto negli altri libri iconografici, in virtù dell’indirizzo manoscritto che si sviluppa in due distinte righe sovrapposte anziché in una? Questioni di lana caprina, si dirà, ma non per gli appassionati di cimeli rimbaudiani, qualora si consideri che gli autografi del poeta francese, oltre a far luce su aspetti biografici ancora incerti, sono diventati autentiche rarità, contese a suon di quattrini da enti e collezionisti. Si pensi, per esempio, alla paradossale sequenza del brogliaccio della Saison, considerato irrimediabilmente perduto dagli specialisti, mentre invece si trovava nelle mani di Jacques Guérin, facoltoso collezionista che, alla stregua di un investigatore incallito, lo aveva rintracciato presso un antiquario londinese nel 1938, rilevandolo dopo dodici anni di contrattazioni.
Sappiamo che i biglietti da visita di Rimbaud furono stampati «durante il suo soggiorno a Stoccarda, qualche settimana prima di arrivare in Italia» e che l’indirizzo, riportato a penna, variava «a seconda del luogo in cui lo portava la sua irrequietezza».
Rinuncia alla letteratura
Nel 1875 Rimbaud decise, come osserva Franzosini, di compiere «la sua definitiva rinuncia alla letteratura». A partire da quel momento diventa «via via, soldato mercenario nelle file dell’Esercito Coloniale delle Indie Olandesi di stanza sull’isola di Giava; inserviente di un circo in tournée a Stoccolma e Copenaghen; sorvegliante di una cava prima e caposquadra di un cantiere poi, a Cipro; impiegato di una ditta di import-export ad Aden, commerciante di caffè, cuoio e avorio a Harar (…) e infine mercante d’armi in Abissinia». Si ripercorrono le vicissitudini compiute da Rimbaud durante l’attraversamento a piedi del San Gottardo, la permanenza di un mese nella città meneghina, l’incontro e l’ospitalità concessa da quella che Verlaine definì, in un fascicolo monografico degli «Hommes d’aujourd’hui», «una vedova molto civile». A proposito di quest’ultima l’autore suggerisce che si tratti della «più misteriosa di tutte, quella che dà l’impressione, a chi cerca di tracciarne un ritratto, di stare a disegnare nel vuoto, (…) che ha la consistenza incerta ed evanescente che può avere solo un fantasma».
Franzosini rifugge sia dagli stereotipi sia dalle ricostruzioni biografiche adulterate dovute in parte all’operato della sorella Isabelle e del marito Paterne Berrichon. Ricostruisce, in base a una serie di illazioni, il rapporto tra Rimbaud e la signora milanese sul quale, in genere, i biografi tendono a glissare, a causa della penuria di fonti e delle testimonianze contraddittorie, sempre di seconda mano, fornite dagli amici del poeta. Graham Robb, nella sua puntigliosa biografia, liquida la questione in poco meno di mezza paginetta, rimandando a Piero Boragina che nel catalogo J’arrive ce matin… L’universo poetico di Arthur Rimbaud, avanzava l’ipotesi che la «signora caritatevole» di cui parla Delahaye fosse la vedova di un mercante di vini, segnata dalla perdita del figlio avvenuta l’anno precedente. Jean-Luc Steinmetz, in Les femmes de Rimbaud, accenna a un’eventuale liaison, concludendo in maniera un po’ troppo ottimistica: «Non sono state portate avanti ricerche per conoscere l’identità di questa vedova – il che non dovrebbe essere impossibile, a meno che gli archivi dell’epoca non siano andati perduti o distrutti».
I magazzini della Rinascente
La stessa casa di Piazza del Duomo non esiste più, rimpiazzata dai magazzini della Rinascente. Notevole il lavoro di documentazione compiuto da Franzosini che, per situare storicamente il passaggio di Rimbaud a Milano, consulta libri e giornali dell’epoca, arrivando a fare congetture quanto mai pertinenti sulla frequentazione con i letterati del tempo, tra cui i vari esponenti della scapigliatura. Ma cosa mai avrebbero potuto dirsi il poeta che doveva «farsi veggente» e un habitué da salotto come Emilio Praga, che al confronto si potrebbe annoverare tra gli animaletti descritti nelle Chercheuses de poux? Osserva Franzosini: «Uno dei pochi luoghi della città in cui si può affermare con una certa sicurezza che Rimbaud abbia messo piede sono gli uffici della Posta. La sede della Regia Posta Centrale si trovava in via Rastrelli 20». E da questo ufficio inviò probabilmente all’amico Delahaye la richiesta di spedire a Milano la copia con dedica di Une Saison en enfer, edita due anni prima a Bruxelles dall’Alliance Typographique in 500 esemplari. Si consideri che Rimbaud ebbe a disposizione soltanto qualche copia del volume, in quanto la tiratura rimase ad ammuffire in un deposito della tipografia, non essendo mai stata saldata la relativa fattura dal poeta. Soltanto pochi privilegiati ricevettero un esemplare con dedica in omaggio. Nel 1901 un avvocato bibliofilo, Léon Lousseau, recuperò casualmente e acquisì in blocco le copie. Ne bruciò settantacinque che si erano deteriorate e comunicò la sua scoperta alla Société des Bibliophiles Belges soltanto tredici anni più tardi, il 12 luglio 1914, regalando una copia a ciascun membro dell’associazione (oggi un esemplare della princeps, che all’epoca della pubblicazione non interessava a nessuno, si aggira sul mercato antiquario intorno ai diecimila euro).
Il tentativo di far leggere i testi enigmatici della Saison a una signora milanese che non li avrebbe compresi, rappresenta idealmente lo spartiacque tra prima e Dopo il diluvio, è «l’ultimo sussulto di interesse per la letteratura». Anche l’aspetto fisico cambierà: il giovane che «per delicatezza» ha perduto la vita si è trasfigurato nel mercante indigeno delle foto di Harar. Non più il volto efebico e sfrontato che Fantin-Latour immortalò nel Coin de table ma quello miniaturizzato e inespressivo di una mummia. Aveva previsto tutto in quel libretto: «Ero maturo per il trapasso».