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Rileggiamo “Germania anno zero”

Rileggiamo “Germania anno zero”da "Germania anno zero"

La Milanesiana Intervento del regista nella serata del 5 luglio che lo ha visto protagonista con Sandro Veronesi

Pubblicato più di 7 anni faEdizione del 8 luglio 2017

Ho deciso, per il mio intervento in merito al film di Robert Rossellini Germania anno zero, di rivedere il film con il pensiero, le immagini-pensate, del cominciamento e del coraggio.

Perché il “cominciamento”? Innanzitutto per una semplice ragione, implicita nel titolo, comprensivo dell’espressione: anno zero. L’anno zero è l’anno del cominciamento, dell’inizio, della nascita. Dal momento che contiamo gli anni partendo dalla nascita di Cristo, è possibile che il titolo al quale Roberto Rossellini ha pensato prima di scrivere la sceneggiatura intendesse evocare la nascita di Gesù e, per il suo tramite, la religione cristiana, in particolare l’interpretazione che ne ha offerto la filosofa Simone Weil, il cui pensiero sui temi della forza e della debolezza ha ispirato profondamente Rossellini.

Perché il nesso con il coraggio? Certo per una ragione di circostanza, perché la Milanesiana di quest’anno ha per titolo Paura e coraggio dell’accoglienza, ma sostanzialmente perché il motivo del coraggio è al centro del film, e anche perché il coraggio, come ha scritto Jankélévitch nel suo Trattato delle virtù, “è la virtù inaugurale del cominciamento”. Di più. “Bisogna cominciare con il cominciamento. E il cominciamento di tutto è il coraggio.” Con queste parole il filosofo intende dire, fra l’altro, che il coraggio è il momento della decisione radicale, un momento di rottura e non la risultante di un processo di continuità, il momento di una decisione che non è frutto di un sapere e che, al contrario, si produce grazie e malgrado la conoscenza del pericolo che si corre, della paura che si avverte. “Grazie” perché chi ignorasse il pericolo, la paura, non potrebbe essere detto coraggioso ma puramente incosciente, incurante, scioccamente intrepido. “Malgrado” perché è indispensabile la presenza dell’ostacolo, al quale la codardia soccombe e al quale il coraggio si oppone, sormontandolo.

Inizio a parlare del film, del cominciamento e del coraggio, attraverso il percorso di un personaggio secondario, Karl-Heinz Köhler, il fratello maggiore di Edmund, il bambino, il piccolo protagonista del film. Karl-Heinz è un giovane ex soldato della Wermacht che si nasconde in un angolo dell’alloggio occupato dalla famiglia Köhler, poiché teme le rappresaglie delle forze alleate che hanno sconfitto la Germania e rappresentano il nuovo potere insediatosi a Berlino: infatti tutti gli ex soldati della Wermacht devono dichiarare la propria identità per diventare prigionieri di guerra. Tutte le scene che riguardano Karl-Heinz si svolgono nel rifugio dell’alloggio dal quale il giovane si rifiuta di uscire. E sono scene che l’angustia dei décor, la rapidità dei movimenti dei corpi, la fluidità di certe inquadrature caratterizzate da un montaggio spezzato e la luce non espressionista, si sforzano di sottrarre alla messa in scena da teatro d’interni: scene quindi che non costituiscono certo i grandi momenti cinematografici del film, e che tuttavia, in gran numero, riguardano il coraggio o, meglio, la sua assenza, nella persona di Karl-Heinz. La parola coraggio (Mut, in tedesco) viene nominata più volte nei dialoghi. La scena più significativa è quella in cui il padre Köhler, malato, costretto a letto, pronuncia, mentre sta mangiando qualcosa che somiglia a una zuppa, le seguenti parole: “Tu sei giovane, puoi ancora sistemare le cose. Dimostra di essere un uomo, abbi il coraggio di costituirti.” E successivamente: “Te ne saremo riconoscenti, a me restituirai il coraggio di vivere.” Al termine di questa scena, molto lunga, i soldati delle forze alleate perquisiscono l’alloggio, esasperando in Karl-Heinz il senso di paura, tanto che l’ex soldato, anziché continuare a nascondersi nella sua tana come non ha mai smesso di fare, anziché continuare a convivere con la paura e la vergogna, decide finalmente di uscire, di mostrarsi, di andare a costituirsi. Karl-Heinz esce per la prima volta dall’alloggio, per la prima volta il suo corpo varca la soglia di casa in direzione della scala, per la prima volta scende le scale che lo portano in strada, verso le truppe alleate che lo arresteranno, verso la verità della sua vile disfatta, in mezzo alle rovine. Ebbene, questo istante di coraggio filmato da Rossellini come se costituisse una frattura spaziale, un passaggio repentino del corpo di Karl-Heinz dall’interno verso l’esterno, coincide con il movimento di un cominciamento, di una liberazione, di una rinascita morale che evoca l’anno zero del titolo. In un momento successivo del film, Rossellini mostrerà, in un esterno giorno breve e luminoso, l’ex soldato rimesso in libertà dagli alleati, mentre cammina lungo la strada tra le costruzioni in rovina, senza più la paura di mostrarsi, perché ha finalmente trovato il coraggio di riconoscere chi è stato. È un piano in cui la gioia di Karl-Heinz, il suo ritrovato coraggio di vivere, s’incarnano nel suo viso ora disteso e nella sua camminata dai movimenti sciolti, finalmente liberi, a un punto tale che, in quell’istante, la luce bianca e intensa dell’inquadratura sembra scaturire dal corpo in movimento, illuminare le rovine di Berlino lasciate in secondo piano, trasformandole nelle fondazioni di una nuova vita.

Il movimento coraggioso di Karl-Heinz che varca per la prima volta la soglia dello spazio interno per scendere le scale verso l’esterno, e quindi verso il suo passato infine riconosciuto come tale, non costituisce ancora il movimento decisivo ed estremo, quel movimento nel quale si risolverà invece il percorso del fratello minore Edmund, il bambino protagonista del film. Il percorso di Edmund, in considerazione dell’autoreclusione del fratello maggiore e della scarsità dei viveri procurati dalla sorella maggiore nelle sue escursioni notturne, consisterà nell’uscire ogni giorno dall’alloggio per percorrere la città in rovina e tornare con un po’ di cibo o di denaro, onde provvedere ai bisogni della famiglia, in particolare del padre malato, il quale continua a ripetere di sentirsi un peso per i familiari, di vergognarsi di esserlo e di preferire morire. Nel corso dei suoi vagabondaggi tra l’alloggio e le rovine di Berlino il piccolo Edmund, incurante, ancora condizionato dalle immagini e dalle parole secondo cui per sopravvivere vale la legge del più forte, incontra l’ex maestro nazista e pedofilo, il quale, accarezzandolo, gli ricorda che il padre Köhler si era opposto al fatto che il figlio Edmund entrasse a far parte della “gioventù hitleriana”, e gli chiede di vendere per lui un disco con incisi i discorsi di Hitler. Non solo. In un successivo incontro gli dirà, a proposito del padre malato, che nella vita “i deboli devono soccombere ai forti”, e che “a volte occorre avere il coraggio di eliminare i deboli”.

L’eliminazione del debole, di suo padre, il piccolo Edmund la condurrà a termine nel corso della lunga scena alla fine della quale Karl-Heinz decide di uscire per costituirsi, un modo per avvertirci in anticipo che il movimento coraggioso del corpo di Karl-Heinz in uscita dall’alloggio non sarà sufficiente per cominciare una nuova vita e attingere l’anno zero. Per attingere l’anno zero, per rinascere davvero, si renderà necessario un altro movimento, più estremo, quello compiuto dal corpo del bambino divenuto assassino.

Durante la scena del padre che, disteso a letto, sta parlando al figlio maggiore, Edmund consuma il delitto. Scrivo il delitto e non il suo delitto, poiché i suoi gesti, intesi a preparare la tazza di tè, a versarvi il veleno e a offrire il tutto al padre, sono filmati come gesti compiuti senza esitazione, senza rimorso, non appartenenti a una coscienza malvagia o tormentata ma al comportamento di un bambino che fa con serietà ciò che deve fare. Poco dopo la morte del padre, Edmund dirà all’ex maestro di aver fatto quanto lui gli aveva detto di fare, cioè eliminare il padre, al che il maestro terrorizzato lo caccia di casa, proibendogli di dire che è stato lui a consigliargli di fare una cosa del genere.

Ormai Edmund è solo, solo in mezzo alle rovine della città, solo a portare sulle sue spalle di bambino il carico troppo pesante di un mondo amorale, pervertito: un bambino che non potrà più giocare con gli altri bambini, pur restando ancora il bambino ramingo tra le rovine di Berlino, della Germania. Il suo, è il percorso di un bambino solitario che si affida casualmente a un muretto che gli permette di saltare da un piano all’altro, o a brandelli di asfalto su cui improvvisare il gioco della campana, o al ritrovamento di un oggetto che raccolto fra i detriti che gli dà d’un tratto l’impressione di poter tenere in mano un revolver e di potersi sparare una pallottola in testa, o alla voglia infantile di correre solo per correre, di inciampare in una pietra solo per inciampare in una pietra, di salire una scala di corsa solo per salire una scala di corsa, di arrivare all’ultimo piano di un palazzo diroccato senza nemmeno rendersene conto, di incontrare lassù lo spuntone di una grossa trave affiorante dal suolo sventrato e inclinata verso il piano inferiore: il che induce Edmund ad associare il tutto al toboga dell’infanzia, a togliersi la giacca e, tornato pertanto bambino in pantaloncini e bretelle, a lasciarsi scivolare lungo la trave per ritrovarsi sull’orlo del vuoto, a guardare in basso, a mettersi la mano sugli occhi e a lasciarsi cadere nel vuoto.

La caduta nel vuoto del bambino, il suo suicidio, è l’estremo movimento d’uscita, che in qualche modo svolge e radicalizza il primo movimento d’uscita di Karl-Heinz, in modo da poter scendere fino al punto più basso, fino alla profondità dell’anno zero. Fino a quello zero in cui il popolo che idolatra la morte, la forza come possibilità di dare la morte, deve discendere per potere rinascere. La caduta nel vuoto del bambino è un estremo movimento d’uscita, nel senso in cui il bambino, Edmund, esce dalla vita stessa, si dà la morte, e anche nel senso in cui, dandosi la morte, si dice il bambino innocente pervertito dall’ideologia della forza: il bambino che denuncia tale ideologia mostrandosene la vittima e insieme il bambino che chiede di non guardarlo come vittima, in altre parole il bambino innocente capace di sentirsi colpevole e di fare di quel salto nel vuoto il suo movimento, il suo movimento di coraggio, un movimento che, senza cessare di essere il suo, significa anche, per noi spettatori, il salto nel vuoto capace di depurare, di purificare la Germania della sua ideologia nazista e di ripartire da zero.

Si è scritto molto sul suicidio di Edmund, un fiume d’interpretazioni che non deve stupire. In primo luogo perché il suicidio e il bambino sono fattori in contraddizione tra loro, che rifiutano di conciliarsi e di fare ossimoro, a meno di produrre un’incomprensione dolorosa, una stupefazione soffocante, dalla quale proviamo a uscire dando appunto luogo a una quantità d’interpretazioni. In secondo luogo perché la morte di Edmund, la morte del bambino, resta comunque la morte dell’innocente, ed evoca come si diceva, la morte di Cristo, quindi anche la dialettica cristiana della caduta e della resurrezione, della morte e del riscatto: tanto più che l’ultimo piano, quello della passante che prende tra le braccia il corpo di Edmund, evoca la Pietà, e il piano termina con un movimento panoramico verso un cielo che – dettaglio raramente notato – non offre alcuna certezza. Non appena la camera oltrepassa la linea dell’orizzonte, il cielo inizia infatti a oscurarsi per diventare una nera notte che ci rimanda all’unica luce della nostra responsabilità umana.

A proposito delle diverse interpretazioni, ci sarebbe ancora molto da dire: mi limito a far notare che sono perlopiù plausibili e che tuttavia non esauriscono il senso del film, poiché Rossellini – ecco perché è un grande cineasta – non ha messo in scena una tesi, o delle idee, bensì un bambino, e ha guardato a questo bambino con la sua camera senza farne il portatore di un’idea o di un discorso, lasciando che rimanesse pura presenza, refrattaria a ogni protocollo ideologico o estetico.

E in proposito vorrei dire brevemente due cose, il merito al coraggio di Rossellini. La prima riguarda il coraggio dello sguardo di Rossellini regista, sguardo che non cerca l’intreccio forte, a suspense, o il personaggio forte con il quale lo spettatore possa identificarsi. Rossellini non si lascia sedurre dai tropi del cinema commerciale: non perché non desideri che i suoi film siano dei successi, quanto perché desidera prima di tutto essere fedele a ciò che pensa, a ciò che intuisce essere la sua arte. Ben conoscendo il nesso tra la forza e la morte, tra la debolezza e la vita, non succederà mai che la sua camera, la sua luce, la sua regia eroicizzino i corpi, rinchiudendoli in quella che potremmo chiamare un’estetica del coraggio. Dal primo all’ultimo piano, Edmund è un bambino filmato all’altezza di bambino, e il suo ultimo movimento, il suo salto nel vuoto che ho definito coraggioso, è filmato come debolezza, debolezza che spinge il bambino ad aver paura del vuoto e a tapparsi gli occhi prima della caduta.

La seconda cosa che vorrei dire a proposito del coraggio di Rossellini riguarda ancora il suo sguardo di regista, collocato però, se così posso dire, nel tempo in cui prepara e gira Germania anno zero, vale a dire i primissimi anni del secondo dopoguerra.

Durante la stesura della sceneggiatura, Rossellini si è circondato d’intellettuali comunisti inclini a difendere la tesi della resistenza antinazista di un popolo tedesco più comunista che nazista, la tesi di un nazismo prodotto dal capitalismo, e soprattutto la tesi del comunismo quale unica speranza per l’Europa della seconda metà del XX secolo. Oggi possiamo contare su un sufficiente distacco storico per poter sorridere dei contrasti tra Rossellini e i suoi consulenti o sceneggiatori comunisti, ma all’epoca la cosa non era così scontata. L’impegno del film chiedeva a Rossellini il coraggio di essere solo, di non far parte del gruppo, di non condividere la doxa dell’intellighenzia di allora tutta focalizzata sulla resistenza al nazismo e non ancora pronta a vedere che cos’era stata la distruzione di massa degli ebrei europei. Rimanendo fedele alle sue intuizioni artistiche, ostinandosi a osservare quel figlio del nazismo in mezzo alle rovine di Berlino, Rossellini non ha solo realizzato un grande film, ha anche dato vita a un’immagine: quella del bambino assassino del proprio padre, del bambino nazificato capace di vedere nel padre il vecchio debole e malato che deve essere eliminato, immagine terrificante in contrappunto con l’incommensurabile orrore dei campi della morte, sebbene nel film non affiori alcuna allusione ai campi di concentramento.

Per concludere vorrei leggervi un breve estratto di L’espèce humaine di Robert Antelme, in consonanza con il malessere di Edmund, con ciò che il suo suicidio, la sua caduta nel vuoto significano in termini di anno zero.

La scena si svolge su un treno merci poco prima della fine della guerra, nel momento in cui, in fuga dagli alleati sempre più vicini, le SS stanno trasportando un gruppo di detenuti da Buchenwald a Dachau.

La vita! Espagnol, che era coricato sotto la finestrella, si è spostato ed è andato a sedersi contro la parete del vagone. È un catalano. In Francia, uno dei suoi figli è stato fucilato davanti a lui, l’altro gli sta ora disteso al fianco. Il vecchio ha una faccia giallastra, rotonda, scavata, piena di rughe: impossibile indovinarne l’età. […] Il mistero dell’irriducibile estraneo che rimane tutto sommato un padre, si è apparentemente dissolto nel cerchio della fame e delle pulci. E adesso appare come qualcosa di trasparente. Le SS credono che, in quella parte di umanità che essi (il vecchio spagnolo e il figlio) hanno scelto di essere, l’amore debba marcire insieme a tutto il resto, perché non è che una parodia dell’amore dei veri uomini, perché non può esistere realmente. Invece, lì, sull’impiantito di quel vagone, la straordinaria stupidità di quel mito viene clamorosamente alla luce. Il vecchio Espagnol è forse diventato trasparente per noi ma non per il figlio; per il quale, sull’impiantito, c’è ancora la vecchia faccia giallastra e rugosa del padre e, sovrapposta alla sua, quella della madre e, attraverso lei, ancora tutto il mistero possibile della filiazione. Per il figlio, il linguaggio e la trasparenza del padre restano insondabili come al tempo in cui quest’ultimo era ancora pienamente sovrano.”

© Luc Dardenne 2017, La Milanesiana, Letteratura, Musica Cinema e Scienza ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi.
(traduzione di Sergio Arecco)

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