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Rileggendo «Servabo» di Luigi Pintor

Il divano «Mi era rimasto nell’orecchio che le rivoluzioni riescono quando le preparano quelli che non c’entrano niente, i poeti e i pittori, purché sappiano qual è la loro parte. E poiché gli operai possono fare da soli moltissime cose meglio di chiunque, ma difficilmente un prodotto immateriale com’è un giornale, fui persuaso che questo compito spettava a dei giovani acculturati, purché lo assumessero come un compito speciale: un compito d’onore»

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 21 dicembre 2018

«Scritta sotto il ritratto di un antenato mi colpì, quand’ero piccolissimo, una misteriosa parola latina: servabo. Può voler dire conserverò, terrò in serbo, terrò fede, o anche servirò, sarò utile». Nella flessione di possibili variazioni, il costante significato di quella voce verbale sta nella determinazione individuale ad assumersi una responsabilità come un pegno d’onore. Ed allorché nell’aprile del 1991, presso l’editore Bollati Boringhieri, Luigi Pintor decide di pubblicare una sua ‘memoria’ nel «tentativo, scrive, di restituire alle cose una durata che di per sé non hanno»; appunti, aggiunge, che «sono soltanto un espediente per riordinare nella fantasia dei conti che non tornano nella realtà», darà loro il titolo di Servabo. Memoria di fine secolo.

Conti tirati negli anni della guerra tra 1940 e 1945 e da allora, per così dire, tenuti aggiornati, anno dopo anno, per un cinquantennio. Pintor ritiene che suo fratello Giaime, morto da partigiano del 1943, «senza la guerra sarebbe rimasto uno scrittore, avrebbe continuato a credere nell’esperienza individuale, nella storia dell’uomo solo, non avrebbe sacrificato le sue prerogative a una fede collettiva».

E Luigi, a sua volta, forse si sarebbe fatto musicista: «avrei preferito, scrive, questi mondi fantastici a quello reale» e, aggiunge, per me forse «la politica sarebbe rimasta, senza la guerra, una curiosità secondaria».

Servabo è l’asciutta meditazione su quel pegno d’onore di farsi Homo politicus contratto con se stesso a vent’anni e mantenuto.

Dichiarata la fine della guerra, «ero stupito che la normalità riproducesse così velocemente, con le stesse abitudini, anche gli stessi vizi». L’«onore del mondo» sta allora nel tentativo di cancellare le «sproporzioni» che contrassegnavano quella «normalità» restaurata. «Mi era rimasto nell’orecchio che le rivoluzioni riescono quando le preparano quelli che non c’entrano niente, i poeti e i pittori, purché sappiano qual è la loro parte. E poiché gli operai possono fare da soli moltissime cose meglio di chiunque, ma difficilmente un prodotto immateriale com’è un giornale, fui persuaso che questo compito spettava a dei giovani acculturati, purché lo assumessero come un compito speciale: un compito d’onore».

Nelle pagine di Servabo non c’è una data, non il nome d’un luogo. Non un solo nome di persona. Ma c’è l’epoca, e ci sono le idee e i fatti che animano le città e gli uomini. Incontri più di una volta la parola rivoluzione, ma invano cerchi la parola comunismo. Dice Pintor che «come da un osservatorio astronomico si guarda il cielo, così dalla mia postazione mi affacciavo su un grande scenario e credevo di partecipare al moto degli astri mentre sedevo a una macchina da scrivere». Partecipare al moto degli astri: «con grandissimo ritardo ho capito che le nostre lenti erano deboli e i nostri strumenti antiquati, e che osservare un grande scenario non vuol dire conoscerlo e tanto meno influenzarlo». Pintor confessa che «e nomi e luoghi e date, che avevano anche loro per me una grande importanza, ho preferito non indicarli per evitare che mi si sbriciolassero tra le mani come polvere».

Così in Servabo date, luoghi, persone assurgono ad una dimensione paradigmatica entro la quale Pintor dispone gli ‘elementi portanti’ del tempo storico del Novecento. Una dimensione ragionata in modo che viene a convergere e collimare con l’identità individuale dello scrittore, là dove quegli ‘elementi portanti’ costituiscono altrettante interrogazioni: «non sospettavo che nei nostri recinti fossero cresciute le stesse ortiche che volevamo estirpare in quelli altrui». Le pagine di Servabo dove, quanto può ricevere una pertinente risposta, risulta dai processi di decantazione e di sedimentazione ai quali ciascun ‘elemento portante’ viene sottoposto nell’opera di scrittura.

«Per anni ho applicato alla scrittura le tecniche meticolose che si usano su una tastiera. Ritagliavo e limavo i miei scritti stampati sul giornale, interminabili resoconti di discorsi altrui e timide prove personali, scoprendo che c’è sempre una riga su tre di troppo e arrivando alla conclusione che due pagine (come ancora sostengo) bastano a esaurire qualsiasi argomento».

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