«Il giudice veda se resiste un minuto lui lì, sotto le macerie e il ghiaccio, come ho fatto io. Io ci ho resistito 62 ore. Il giudice pensi a me e a tutte le mamme che sono qui e che da sei anni stanno piangendo». Giampaolo Matrone è fuori di sé, dopo la sentenza che quasi azzera ogni responsabilità per il disastro dell’Hotel Rigopiano a Farindola (Pescara). Sotto i detriti dell’albergo spazzato via da una valanga il 18 gennaio 2017 ci ha lasciato la moglie, Valentina Cicioni, che aveva 32 anni. «Mi hanno ammazzato per la terza volta: quando ci hanno scortato, il giorno prima della tragedia, verso la morte. La seconda volta quando ci hanno abbandonato, come i topi e come i cani, dentro quella tomba. E ora oggi. A noi serviva una pena severa o giusta, per noi e per tutta l’Italia. Ci ho provato, a credere allo Stato, ma lo Stato non esiste. Non me lo aspettavo. In tutti questi anni – prosegue – abbiamo cercato di andare avanti. Avevo promesso a mia figlia che dal giorno dopo la sentenza saremmo tornati a vivere, purtroppo non sarà così. Mia figlia mi ha mandato un messaggino chiedendo: “Li hai mandati in galera?” Ora torno a casa e le dico che in galera non ci va nessuno, che al giudice non interessa, che tanto lui a casa starà con la sua famiglia. Per noi invece è diverso». Ventinove maglie con i volti delle 29 vittime del disastro poggiate su altrettante sedie, in aula, in modo che «anche loro siano qui».

E POI UN ENORME striscione, fuori dal palazzo di giustizia. E dichiarazioni di speranza e di fiducia: «È arrivato il giorno della verità». Ma è una bomba che, di colpo, deflagra, il verdetto del giudice di Pescara, Gianluca Sarandrea. Assoluzione per 25 dei 30 imputati, per cui la Procura aveva invece chiesto 150 anni complessivi di carcere. Cadute le accuse nei confronti di quasi tutti. Le cinque condanne riguardano il dirigente e il responsabile del servizio di viabilità della Provincia di Pescara, Paolo D’Incecco e Mauro Di Blasio (tre anni e quattro mesi di reclusione ciascuno); il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta (due anni e otto mesi di reclusione) perché non fece sgomberare l’hotel: rispondono di omicidio plurimo colposo e lesioni multiple colpose. Poi ci sono il gestore dell’albergo e amministratore della società “Gran Sasso Resort & Spa”, Bruno Di Tommaso, e il redattore della relazione tecnica di intervenire su tettoie e verande del resort, Giuseppe Gatto: sei mesi di reclusione ciascuno per falso.

PER IL RESTO È un susseguirsi di «il fatto non sussiste» e «per non aver commesso il fatto».

Le poche pene comminate non bastano ai parenti delle vittime. Si sa, non bastano mai, ma nel tribunale di Pescara scoppia il parapiglia. L’aula si infiamma. Urla, pianti, proteste, parolacce; qualcuno accusa malori. Il giudice viene assediato, protetto da poliziotti e carabinieri che cercano di contenere la rabbia e bloccano alcuni dei familiari che gli gridano contro. Sono insulti, tavoli rovesciati: «Ti devi vergognare per quello che hai fatto. Di chi sarebbe la colpa?», gli domandano mentre lui rimane attonito. «Se di questa vicenda – dicono alcuni difensori – sono state ritenute responsabili le poche persone condannate è evidente che l’impianto accusatorio della Procura avrebbe dovuto essere diverso e avrebbe dovuto valorizzare gli elementi indiziari nei confronti di persone rimaste estranee al processo».

IL PRESIDENTE della Regione Abruzzo, Marco Marsilio: «La sentenza provoca dolore e sorpresa, e non possiamo non comprendere i sentimenti dei familiari delle vittime e dei superstiti. Nello stesso tempo, abbiamo il dovere come rappresentanti delle istituzioni di rispettare la sentenza e di prendere atto della decisione del giudice». Il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, spiega che valuterà il ricorso dopo aver letto le motivazioni. «Ci vogliono vedere a terra, ma rimarremo combattivi, come sempre – afferma Mariangela Di Giorgio, che ha perso la figlia Ilaria Di Biase, 22 anni, cuoca dell’hotel -. Nessuno di noi si aspettava questo risultato – aggiunge -, almeno fino all’arrivo di tante forze dell’ordine in tribunale. Non credevamo nell’accoglimento totale delle richieste della Procura, ma nemmeno che sarebbe avvenuta una tale vergogna.

Stamattina, uscendo, a Ilaria ho chiesto: “Pensaci tu”, ma non è bastato. Andiamo avanti, mia figlia è accanto a me, io la sento ogni momento. E per lei e per tutti gli altri continueremo a chiedere una giustizia che finora si è defilata. È, questo, un colpo durissimo».