Una squadra in cerca d’asilo
La storia A Nettuno domenica si vota e la destra cavalca la paura dell’«invasione» dei richiedenti asilo. Che non votano ma combattono il razzismo con una squadra di calcio popolare sostenuta da una rete di attivisti. Ad allenarla è l’italiano Cristiano Castaldi, che la definisce «un work in progress»: la domenica va in campo chi durante la settimana non è stato rimpatriato
La storia A Nettuno domenica si vota e la destra cavalca la paura dell’«invasione» dei richiedenti asilo. Che non votano ma combattono il razzismo con una squadra di calcio popolare sostenuta da una rete di attivisti. Ad allenarla è l’italiano Cristiano Castaldi, che la definisce «un work in progress»: la domenica va in campo chi durante la settimana non è stato rimpatriato
L’elenco dei titolari dell’Atletico Pop United, per l’allenatore Cristiano Castaldi, è un terno al lotto. Prima di scendere in campo, a una squadra di calcio composta al cento per cento di rifugiati, può accadere di tutto: ad esempio che il giorno prima di un importante derby il portiere sia trasferito in un centro di accoglienza a Catania o che un paio di giocatori si preparino per l’evasione durante gli allenamenti come in Fuga per la vittoria (il leggendario film di John Huston ispirato alla «partita della morte» giocata in un campo di concentramento nazista a Kiev il 9 agosto 1942 tra una squadra di detenuti, calciatori della Dynamo e della Lokomotiv, e una seconda composta da ufficiali della Luftwaffe tedesca), per andarsene in Francia o in Germania a ricongiungersi con familiari o amici.
Si tratta di eventi comuni, in una squadra composta al cento per cento di giovani africani sbarcati nel nostro Paese e costretti a vivacchiare in un centro di accoglienza in attesa del rimpatrio o del riconoscimento dello status di rifugiato. L’unico italiano, l’allenatore e factotum Castaldi, con un eufemismo definisce l’Atletico Pop United «un work in progress»: il nuovo portiere si chiama Njie Ousmane ed è sbarcato dal Gambia come il capitano e bomber Allo Osman, tre difensori su quattro provengono dal Mali, la seconda punta Moro Ly è un ventenne proveniente dal Senegal più profondo («sono arrivato in Italia due anni fa dalla regione di Tambacounda»), altri sono ghanesi.
L’Africa di casa nostra
L’Atletico Pop United è l’Africa subsahariana di Nettuno, 50 mila abitanti affacciati sul mare dello sbarco americano del 1944, medaglia d’oro al valor civile per il contributo dato alla Liberazione dal nazifascismo e primo comune laziale sciolto per mafia, nel 2005, governato da un prefetto dopo il collasso dell’amministrazione a guida Pd, un anno fa, e al voto domenica prossima in formazione sparsa: nove i candidati sindaco, tra i quali due del centrodestra, ben tre legati alla vecchia amministrazione di centrosinistra, un altro candidato della sinistra, due liste civiche e i 5 Stelle che da queste parti, a Pomezia, hanno eletto il primo sindaco della loro storia: Fabio Fucci, un informatico poco più che trentenne che ha esordito con un’ordinanza antiprostituzione nella quale si vieta persino di parlare con quest’ultime, in seguito si è visto contestare la decisione dell’assessore Veronica Filippone, sua compagna, di far servire il dolce nelle mense scolastiche solo ai figli delle famiglie che potevano pagare di più e da ultimo si è visto bocciare dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata dall’ex magistrato Raffaele Cantone il bando per la gestione delle aree verdi.
Gli africani non votano, ma la loro sorte potrebbe essere legata a chi vincerà. La destra ha cavalcato le proteste di gruppi di cittadini contro l’ «invasione» di immigrati e a chi vincerà basterebbe revocare l’autorizzazione a utilizzare il campo sportivo per far finire l’esperienza dell’Atletico Pop United. Durante la pausa di un allenamento in cui ha avuto il suo bel da fare per tenere a bada l’allegra indisciplina del gruppo, Castaldi racconta che già in passato «dal Comune hanno fatto di tutto per metterci i bastoni tra le ruote»: «Ci hanno chiesto di fare delle visite mediche, di stipulare una polizza assicurativa e di costituire un’associazione sportiva dilettantistica». All’inizio non avevano neppure una struttura dove allenarsi e ancora oggi i giocatori sono costretti a spostarsi a piedi per raggiungere il campo di gioco, che si trova in periferia. Inoltre, pesa l’indifferenza, più che l’ostilità, del territorio.
Non è mancato qualche episodio di razzismo, come il giorno in cui «i concessionari del campo non volevano che gli immigrati facessero la doccia, un atteggiamento che mi ha ricordato l’apartheid». Solo un paio di mesi fa, «come un fulmine a ciel sereno», è accaduto che da un’auto in corsa abbiano sparato a uno dei giocatori davanti al Cara, ferendolo. Per la squadra è stato uno shock, però tutti tendono a minimizzare l’accaduto e a derubricarlo come un caso isolato, sottolineando il fatto che, quando hanno giocato sul campo del San Giacomo, un quartiere dove un comitato di residenti aveva avviato una raccolta di firme contro i richiedenti asilo, tutto è filato liscio. Piuttosto, mettono l’accento sul fatto che il progetto dell’Atletico Pop United va oltre il calcio giocato: «I ragazzi hanno capito che non tiriamo solo pedate a un pallone ma abbiamo la pretesa di fare attività sociale e stiamo creando un senso di appartenenza», portandoli al cinema, organizzando corsi di italiano e mettendo in piedi un gruppo di musica africana.
Calcio senza padroni
Soprattutto, i richiedenti asilo di Nettuno giocano a calcio. Dopo essere arrivati a sorpresa in finale, su duecento squadre iscritte, un anno fa ai Mondiali antirazzisti giocati a Castelfranco Veneto (dove sono stati sconfitti solo ai rigori dall’Ucb Udine), sono diventati la punta di diamante, o per meglio dire la felice anomalia, di un fenomeno che sta prendendo sempre più piede nel Belpaese degli stadi semivuoti e del business milionario dei diritti televisivi: quello del football popolare, di quartiere o comunitario.
Piccole realtà costruite dal basso, spesso da tifosi in fuga dai merletti della serie A e della Champions League, che provano a ricostruire lo spirito originari e anticapitalista, dello sport più amato del mondo. I loro nomi? L’Ardita San Paolo e l’Atletico San Lorenzo a Roma, il San Precario a Padova, la Konlassata di Ancona, il C.S. Lebowski di Ancona o la napoletana Quartograd dove gioca Diego Armando Maradona Sinagra, il figlio partenopeo del pibe de oro. La loro caratteristica è di essere squadre senza padroni: non hanno alcuno scopo di lucro, anzi tifosi e calciatori si tassano per pagare le spese di iscrizione ai campionato, comprare scarpe e divise o finanziarsi le trasferte. Il modello a cui un po’ tutte s’ispirano è quello del San Pauli, la squadra dell’omonimo quartiere di Amburgo che è arrivata a giocare in Bundesliga, la serie A tedesca, e oggi milita nella Zweite liga, l’equivalente della nostra serie B. Le bandiere e t-shirt nere con il Jolly Roger, la bandiera pirata con il teschio e le ossa incrociate che è il simbolo del team, sono molto popolari tra i supporters antifascisti e antirazzisti delle formazioni di calcio popolare.
Collette per l’iscrizione
L’Atletico Pop United costituisce un’eccezione perché non può neppure autofinanziarsi. Giocatori e tifosi provengono dai quattro centri di accoglienza che si trovano tra Anzio e Nettuno, a una sessantina di chilometri dalla capitale e, per status, «non possono lavorare e dunque non hanno soldi», spiega Castaldi, che ha anticipato di tasca sua i 1.400 euro di iscrizione a un campionato amatoriale della provincia di Latina. Quando hanno cominciato non avevano nulla: i ragazzi giocavano scalzi, mancavano le magliette ed era difficile persino trovare un campo sul quale allenarsi. Ci hanno pensato gli attivisti della rete Core solidale a cercare fonti alternative di finanziamento per consentire al progetto di decollare: cene di sottoscrizione, feste, iniziative di aggregazione, ricerca di piccoli sponsor a patto che non fossero politici, e infine l’azionariato popolare, «tipico escamotage delle squadre che praticano calcio popolare».
Optì Pobà e le altre
Come l’Atletico Pop United ci sono poche altre squadre in Italia. Su una di loro è stato girato pure un film. Finanziato dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, s’intitola Black star – nati sotto una stella nera: il regista Francesco Catellani racconta la storia della romana Liberi Nantes, tra pregiudizi e soprusi nei confronti dei migranti, con un comitato di quartiere che raccoglie le firme per sgomberarli e dietro il quale si nasconde un imprenditore che vuole mettere le mani sul campo di calcio. L’unica squadra iscritta a un vero campionato è invece il Pagi di Sassari, che prende il nome dall’omonimo centro di accoglienza e oggi gioca in Seconda categoria. Ha potuto farlo grazie a una deroga sul numero di stranieri che è possibile tesserare firmata dal presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio, lo stesso della frase su «Optì Pobà» che «è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio e va bene così». Le sue parole, tacciate di razzismo, hanno fatto il giro del mondo, ma ciò non è bastato a ottenerne le dimissioni. In compenso, hanno ispirato la nascita di un’altra squadra di calcio: si chiama proprio Optì Pobà, gioca a Potenza ed è composta di rifugiati politici e immigrati che, in attesa del permesso di soggiorno, prendono a calci il razzismo.
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