Da quasi vent’anni si è dato corso ad una serie di riforme per flessibilizzare il mercato del lavoro. Gli interventi si sono concentrati molto sulle norme per gli ingressi, dal Pacchetto Treu del 1997, passando per la Legge 368/2001, per la Riforma Biagi (Legge 30) del 2003, sino alla recente Legge Fornero del 2012, che ha messo mano anche alle regole per le uscite, intervenendo sui licenziamenti individuali e collettivi. Gli effetti sul mercato del lavoro sono noti. La volontà dichiarata era la maggiore efficacia nel funzionamento del mercato e la riduzione della disoccupazione, di lunga durata e dei giovani in particolare, fenomeni endemici italiani. L’esito delle «riforme parziali» è stato però il dualismo del mercato, cioè la creazione di un mercato parallelo in cui proliferano contratti non-standard dai molteplici profili, che diventano sostituti delle forme contrattuali standard, lavoro subordinato a tempo pieno e senza limiti di durata. È ciò che è diventato noto come «supermarket» contrattuale.

La ricetta della progressiva crescita della flessibilità in entrata, senza alcun intervento organico sul sistema delle protezioni sociali per estendere le tutele ai lavoratori «flessibili», non ha prodotto altro che più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative, meno motivazioni sul lavoro, effetti di cui peraltro si lamenta la stessa Ocse nel suo rapporto 2014 sull’occupazione.

Queste riforme non hanno favorito l’occupazione ma spesso una sostituzione di lavoro giustamente retribuito e stabile, con lavoro instabile che si perpetua contratto dopo contratto e con retribuzioni in discesa. Lo riconosce anche un recente rapporto del MEF (a cura di Di Domenico e Scarlato, 2014): «le riforme parziali della legislazione sul mercato del lavoro hanno avuto l’effetto di accrescere la segmentazione del mercato e i recenti correttivi introdotti non sono stati efficaci nel migliorare l’accesso ad un lavoro stabile né nell’aumentare la probabilità di transizione dal lavoro temporaneo a quello permanente». Anche l’Isfol ci racconta che sul mercato del lavoro dal 2007 la situazione è di molto peggiorata.

Secondo una recente analisi (a cura di Mandrone, Marocco, Radicchia, 2014), dopo il 2009 è avvenuto un processo di sostituzione del lavoro standard con lavoro non standard, contratti a termine, a tempo ridotto, a chiamata, lavoro autonomo che fattura ma non incassa. Questi contratti non riescono neppure svolgere la funzione “ponte”, ovvero facilitare il passaggio dal non lavoro al lavoro stabile.

È aumentato invece il fenomeno della “trappola” della precarietà, più lavori non standard successivi con scarse possibilità di giungere ad un lavoro standard, ed è anche aumentato il fenomeno del “rimbalzo”, ovvero del passaggio da lavoro non standard allo stato di disoccupazione o di inattività. Infine, anche il lavoro standard non offre certo più le sicurezze della fase pre-crisi, data la crescita della probabilità di perderlo. L’estremo dualismo sul mercato del lavoro generato dalle passate riforme viene oggi esacerbato dai provvedimenti Renzi-Poletti (Legge 78). Il rischio è quello di accrescere la «trappola» della precarietà da cui è difficile uscire, con un aumento della disoccupazione soprattutto nelle fasi negative del ciclo in cui il lavoro manca perché manca la domanda di lavoro che è – ricordiamolo – domanda derivata dalla domanda di mercato, e quindi dalla domanda effettiva.

La revisione delle norme su lavoro a termine e apprendistato rischia di estendere la precarietà o il ritorno verso la disoccupazione e la inattività, in tempo di crisi in cui il lavoro manca perché manca la domanda. Ma ancor più, con questi provvedimenti, il contratto di lavoro subordinato, a tempo indeterminato e pieno, perde definitivamente la caratteristica di contratto prevalente, scalzato dalla molteplicità dei contratti non standard. A questa situazione, che riflette la condizione depressa dell’economia e la stagnazione della produttività, si vuol rispondere introducendo ulteriore flessibilità in entrata, con un nuovo contratto, a tutele progressive, solo perché con esso si rimaneggiano anche le regole delle uscite, facilitando così licenziamenti e cancellando l’art.18.

Con questa politica nessun effetto positivo si è generato sulla produttività nell’ultimo decennio, perché questa può crescere se si innova sui luoghi di lavoro e nell’organizzazione del lavoro, non certo introducendo più precarietà. Ridurre il costo del lavoro attraverso le parziali riforme ha sortito l’effetto di rendere stagnanti le retribuzioni senza effetti positivi su occupazione e neppure su competitività delle imprese. Quanto ancora dovremo aspettare per politiche che accrescono l’investimento in capitale umano, dentro e fuori l’impresa, la qualità del lavoro e l’innovazione? Questi fattori si legano poco con l’instabilità del lavoro e con rapporti lavorativi di lunga durata. Solo allora potremo registrare aumenti di produttività e aumenti dell’occupazione, incrementi di competitività accompagnati da una crescita della domanda.

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