Riforma penitenziaria: a Torino «sciopero del carrello» delle detenute
Nel carcere Lorusso-Cutugno «Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti»
Nel carcere Lorusso-Cutugno «Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti»
Una protesta che parla a tutte le carceri e chiede una riforma non rinviabile del sistema penitenziario. È quella partita da un gruppo di donne della sezione femminile del carcere di Torino Lorusso-Cutugno, che da ieri ha iniziato lo «sciopero del carrello». Rifiuteranno il vitto fornito dall’amministrazione «come dimostrazione pacifica contro l’immobilismo e il silenzio che gravano sui penitenziari italiani», segnati più che altrove dalle conseguenze della pandemia di Covid-19.
Le detenute proseguiranno lo sciopero fino al 21 agosto. E per motivarlo hanno scritto una lettera: «Stiamo portando avanti la richiesta per il riconoscimento dei nostri diritti – si legge – senza violenza e con rispetto, in primis per noi stessi, che oltre ad essere stati soggetti devianti siamo sempre cittadini, aventi diritti e doveri come coloro che vivono in libertà».
Al 31 luglio i detenuti presenti nella casa circondariale di Torino, situata nel quartiere delle Vallette, sono 1.332, di cui 608 stranieri (il numero più alto in termini assoluti tra gli istituti italiani), su una capienza di 1.098. Le donne sono 113 quando i posti dovrebbero essere circa 80. Il sovraffollamento è dunque uno dei problemi e lo è a livello italiano, a Nord come a Sud, visto che a Taranto, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, il tasso di affollamento è del 196,4% (603 detenuti per 307 posti) e a Brescia del 191,9% (357 detenuti per 186 posti).
L’iniziativa ha ottenuto l’adesione di detenuti appartenenti ad altre sezioni del penitenziario ed è sostenuta dal Partito radicale e dai garanti dei detenuti. Monica Cristina Gallo è la garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino e ci racconta come è nata la protesta: «Ne parlano da tempo e ne abbiamo anche discusso insieme. La pandemia ha acuito i problemi e ha innescato una riflessione più consapevole tra le detenute. L’obiettivo è riportare il carcere a uno stato di diritto e si rivolgono al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
La questione è nazionale. Hanno messo in luce diverse problematiche. Dal sovraffollamento, chiedendo anche una riforma della legge sui giorni di libertà anticipata affinché da 45 diventino 65 (retroattivi dal 2015), alle opportunità di studio e lavorative, ridotte anche in conseguenza del Covid. Sono, inoltre, aumentati i problemi psichiatrici. Le detenute lamentano l’assenza di mediatori culturali e la mancanza totale di un’attenzione alle questioni di genere, troppo spesso ignorate».
Una tema sollevato già dal rapporto Antigone. «Le quattro carceri femminili presenti sul territorio italiano (a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia) ospitano 549 donne, meno di un quarto del totale. L’Istituto a custodia attenuata di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un carcere ordinario, ospita 7 madri detenute. Le altre 1.694 donne sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili». Sono ancora poche le donne che lavoravano fuori dal carcere come, invece, previsto dall’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario. «Nel 63,2% degli istituti visitati ospitanti donne – precisa il rapporto – vi era un servizio di ginecologia mentre non vi era per il 15,8%. Nel 42,1% di queste carceri si trovava un servizio di ostetricia mentre mancava nel 26,3%. Non ovunque, nelle carceri ospitanti bambini, era presente un pediatra».
La pandemia ha investito, in particolare nella seconda ondata, il mondo della detenzione femminile, facendo registrare un focolaio nel carcere femminile di Rebibbia nonché il contagio di bambini con la loro madre nell’Icam di Torino.
La protesta torinese è stata annunciata, a inizia agosto, da Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino e membro del Partito radicale, a margine di una visita del carcere di Torino insieme ai garanti comunale e regionale Monica Gallo e Bruno Mellano. «Ci hanno chiamato direttamente le detenute – aveva detto Bernardini all’uscita – sono provate, come tutti i detenuti italiani, da un anno e mezzo di detenzione resa durissima e pericolosa sotto un profilo sanitario dal Covid. Farò una relazione dettagliata alla ministra Cartabia, molto sensibile sul tema carcerario». Descrivendo, infine, «una situazione penitenziaria che ormai rasenta la tortura, deteriorata dalla pandemia che ancora oggi blocca gli incontri fisici senza barriera, l’uso di molte aree verdi e obbliga molti detenuti a comprarsi i farmaci da soli».
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