Quello fra Riforma e Controriforma è stato uno dei nodi più discussi nel dibattito storiografico, perché attorno a esso si confrontavano, quasi come opposte fazioni, storici cattolici e protestanti, che proseguivano sul terreno della storiografia lo scontro teologico fra le Chiese.

Alle definizioni «inadeguate» di Riforma cattolica e Controriforma, Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna alla Normale di Pisa, seguendo un filo rosso che da Vincenzo Cuoco arriva fino ad Antonio Gramsci, preferisce quella di «rivoluzione passiva»: un processo guidato dall’alto, diretto dalla Chiesa di Roma, che non coinvolse le masse popolari – come la rivoluzione napoletana del 1799 nell’analisi di Cuoco e il Risorgimento nella lettura gramsciana –, ma che rappresentò un «grande riassetto del sistema dei poteri».

Una rivoluzione passiva. Chiesa, intellettuali e religione nella storia d’Italia è il titolo del volume pubblicato da Einaudi (pp. 430, euro 34) che ripropone alcuni dei saggi di Prosperi sul tema, raccolti secondo la chiave interpretativa della «rivoluzione passiva»: Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna; La figura del vescovo fra Quattro e Cinquecento; Incontri rituali: il papa e gli ebrei; Censurare le favole. Il protoromanzo e l’Europa cattolica; Penitenza e Riforma; e le introduzioni agli scritti di Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam.

LA RIFORMA PROTESTANTE, nata dall’aspirazione al ritorno alla purezza evangelica delle origini, fu una grande rivoluzione che trasformò profondamente culture e società europee. A essa reagirono la Chiesa romana e il papato: l’esito del processo non sarà un mero ritorno all’antico, ma una ridefinizione del sistema dei poteri, congelando per secoli le aspirazioni a un mutamento profondo sul piano politico e religioso. Appunto una «rivoluzione passiva».

La cartina di tornasole è rappresentata dal rapporto dei fedeli con le Sacre scritture. Se nel mondo protestante la lettura autonoma della Bibbia da parte dei credenti fu la cifra della Riforma luterana, non così avvenne in Italia. «C’era un intero assetto sociale da difendere e non si poteva parlare di contadini senza suscitare fremiti di orrore al pensiero della guerra dei contadini tedeschi», scrive Prosperi. Così «la lettura della Bibbia in volgare era rigorosamente proibita ai laici, che dovevano contentarsi di ascoltare il prete recitare le sue preghiere ed esortazioni nell’incomprensibile latino della messa». Parallelamente però si puntava sulla formazione culturale del clero. Se questo è stato visto come uno dei successi della Riforma cattolica, «non si è posto mente alla contemporanea costruzione della barriera dell’analfabetismo come destino del popolo.

IL PROCESSO STORICO aveva infatti rafforzato la condizione di servaggio di contadini e donne, obbligati a contentarsi di riti religiosi rigorosamente in una lingua incomprensibile. E aveva concentrato il sapere nelle biblioteche del clero, lasciando libere le classi dominanti di possedere tutti i libri che volevano, compresi quelli proibiti».

A Paolo Sarpi, una delle personalità centrali dell’epoca, è dedicato l’agile volume di Corrado Pin, che offre ai lettori anche non specialisti un profilo essenziale ma esauriente del frate servita veneto, vissuto fra il 1552 e il 1623, scomunicato – ma ignorò il provvedimento e celebrò messa fino alla fine – e scampato a un attentato che si sospettò essere stato ordinato dalla Curia romana (Paolo Sarpi, con un saggio di Francesco Mores, Mauvais Livres, pp. 54, euro 11).

Sarpi fu teologo, anatomista, fisico, astronomo – collaboratore di Galileo – e storico, autore della Istoria del Concilio tridentino, pubblicata a Londra nel 1619, con lo pseudonimo di Pietro Soave Polano e subito messa all’Indice dei libri proibiti. Oppositore del centralismo romano, con l’idea di «una Chiesa fondata sul modello delle origini, avversa al temporalismo e alla separazione rigida tra chierici e laici, dove tutti fossero messi in condizione di aderire attraverso la lettura e la comprensione delle Scritture», Sarpi è stato, secondo lo storico Hubert Jedin, «il più grande avversario che il papato abbia avuto al principio dell’età moderna».