«Negli archivi mancano le registrazioni dei nostri artisti ai tempi delle due guerre mondiali, perché? Cosa è successo alla nostra gente? Per uscire dal campo e non essere vittime, bisogna portare queste domande nel presente». Così parla Mohamed-Ali Ltaief, artista tunisino che incontriamo a Centrale Fies, il centro di ricerca per le arti performative di Dro, in Trentino. Il giorno prima aveva presentato il suo lavoro The Concretely WE: Voices from within the camp insieme al musicista della Sierra Leone di base a New York Lamin Fofana – la sua ricerca sul black noise è approdata lo scorso anno alla Biennale Musica – e al dj e sound artist Tarxun, iraniano residente a Berlino. È la prima volta che collaborano; sediamo insieme a un tavolino nel giardino della Centrale durante Live Works, la rassegna curata da Barbara Boninsegna e Simone Frangi che mostra al pubblico un anno di creazione portato avanti nelle residenze che l’affascinante centrale idroelettrica, stretta tra le Alpi e il lago Cavedine, mette a disposizione. Gli artisti selezionati riflettono un approccio di tipo internazionale, che sposta lo sguardo al di fuori del «solito», con domande e affondi sul tema del colonialismo come filo rosso tra i diversi lavori. Al crocevia tra arti della scena e arti visive, molto presente quest’anno è stata la musica, grazie anche agli ospiti «d’onore». L’inclassificabile Kae Tempest ha incendiato il palco con un «arazzo» dei suoi testi, tra canzoni e poesie, in cui si riflette tutto l’amore e il dolore dell’esperienza di una vita: immagini che si accendono luminose tra il flusso ininterrotto di versi, lingua né alta né bassa ma semplicemente vera, che sgorga limpida come da una sorgente. La dj palestinese Sama’ Abdulhadi ha fatto ballare tutta la sala con la sua energia e le progressioni ritmiche massimaliste. Il lavoro di Mohamed-Ali Ltaief, Lamin Fofana e Tarxun invece ha indagato i primi archivi sonori fonogrammatici del Berliner Phonogramm-Archiv e in particolare le registrazioni realizzate con i prigionieri nordafricani nel campo di Half Moon a sud di Berlino: sono le storie di questi combattenti sfruttati dalla Francia durante la prima guerra mondiale e catturati in Germania a dar vita a un «rifiuto sonico» che ci interroga.

Partiamo dal titolo di questo lavoro, «The Concretely WE». Da chi è composto questo «noi»?

Lamin Fofana in «The Concretely WE», foto di Alessandro Sala, courtesy Centrale Fies

Mohamed-Ali Ltaief: Con questo «noi» mi riferisco al Sud globale, ai migranti, agli artisti immigrati e alle persone che hanno lasciato la propria casa. Ma l’idea è anche spingere a riconsiderare la questione dell’identità nazionale. Nel campo ti rendi conto di non essere tunisino, afghano o altro, sei solo un prigioniero; in questi luoghi i confini coloniali si cancellano. L’ispirazione principale viene dal libro del 1920 Darkwater: Voices from Within the Veil del sociologo W.E.B. Du Bois.

Che genere di ricerca avete fatto negli archivi?

M.A.L: Avevo già lavorato sugli archivi tunisini per un progetto incentrato sulla musica di inizio ‘900 e in particolare ho fatto molte ricerche al Music Museum di Tunisi, il primo museo post-coloniale del Paese dove si trova il Sound Archive. Ho poi continuato la ricerca al Berliner Phonogramm-Archiv, dedicandomi alle etichette musicali indipendenti del mondo arabo, e per caso mi sono imbattuto nelle registrazioni di questi prigionieri della prima guerra mondiale, concentrandomi sulla storia del poeta e cantante Sadok Ben Rashid.

Lamin Fofana: Per me in questo momento «archivio» significa incontrare materiali che possono essere «allungati» verso il passato e il futuro. Abbiamo quotidianamente a che fare con ramificazioni, conseguenze di decisioni non positive per molti di noi che sono documentate, penso ad esempio agli accampamenti della storia palestinese come a quelli della Columbia University a New York. Così elaboro quel concretely We: è un’attitudine, un modo di guardare al mondo, un noi che si espande invece di creare barriere. Gli studenti che hanno piantato le tende hanno dato voce a qualcosa che esisteva in quel momento, creando un altro tipo di «campo»: sono stato alla Columbia, li ho visti organizzare lezioni, scrivere testi critici, servire caffè. Erano diciottenni, queer, trans, black, persone vulnerabili. Gli amministratori, la polizia, le persone che ci correggono continuamente non sapevano come fare: hanno provato a creare divisioni e a demonizzare, ma il tempo, credo, è dalla nostra parte. Come sostiene lo storico Gerald Horne: vinceremo nonostante noi stessi, e il caos che c’è tra noi, nella nostra politica, nei nostri comportamenti.

M.A.L: Ho visitato il campo di prigionia Half Moon a Sud di Berlino, è in rovina ma proprio accanto è nato un altro campo di rifugiati siriani. C’è una genealogia di pensatori che hanno riflettuto sul campo, da Arendt a Agamben, e ancora oggi vediamo le diverse possibilità che il concetto di campo offre. Molti di «noi» sono, in qualche modo, in un campo.

Il campo è un modo di costruire uno spazio nello spazio: è quello che avete fatto attraverso il suono.

Tarxun: È stato un processo, decidere come utilizzare lo spazio per creare una narrativa con pezzi di storia che pure diventano senza tempo, visto che ci siamo ancora dentro. La lotta è la stessa, la situazione è la stessa, e per questo volevamo andare oltre l’idea teatrale di divisione tra pubblico e artisti perché siamo tutti dentro a questa storia di disugualianza.

M.A.L: All’inizio del ‘900 è nata la divisione, tutta occidentale, tra musica popolare, moderna e tradizionale. I musicologi non apprezzavano le voci, per loro arte significava composizione, e per questo le registrazioni realizzate nel mondo arabo erano marginalizzate, non considerate dalle etichette e classificate come etnografiche. Ma la musica era molto importante per noi al contrario dell’arte figurativa, centrale nella concezione europea: il colonialismo ha importato la tela. Per questo mi interessa riconsiderare i nostri artisti attraverso il suono, sono spesso persone di cui non sabbiamo molto, come Sadok le cui registrazioni, realizzate quando aveva solo 27 anni, abbiamo proposto «crude» così come sono.

T: Tutto ciò che non è musica occidentale è «etnomusicologia», come se non fosse nemmeno «musica». Ciò che non è europeo è «l’altra musica». Quindi l’eurocentrismo è già nella terminologia.

L.F: All’inizio del 900 la musica africana o asiatica non veniva capita in quanto tale, ma solo come un’espressione culturale, e la categorizzazione è stata un’altra violenza. Per chi era cresciuto ascoltando le composizioni europee dell’800, chi suonava e cantava secondo le scale modali della musica indiana classica era incomprensibile. La prima storia del jazz a New Orleans si è sviluppata nei ghetti, figure come Louis Armostrong, Buddy Bolden, suonavano negli strip club. Quello che adesso consideriamo il contributo americano alla musica del ‘900 viene da luoghi di questo tipo, e non è stata registrata fino alla fine degli anni ’20. Ci sono molti più musicisti e poeti nelle prigioni, oggi, che non al conservatorio.

Parte di questa musica è dunque andata perduta…

M.A.L: Certo, ma noi proviamo anche a re-immaginare il passato, usciamo dalla «verità» del dato d’archivio, che per me è un luogo frammentario per ri-comporre, re-inventare. La musica a volte arriva come un’allegoria di ciò che accade, un nuovo sentiero per saltare oltre alcuni punti della storia. Il blues, ad esempio, è considerato una risposta alla schiavitù.

L’ultima frase che ascoltiamo nel lavoro è: «La morte è il ritiro del suono». Cosa significa per voi?

T: Quello che ho capito nella mia pratica è che in effetti non esiste il silenzio. Persino in una camera completamente fonoassorbente, il suono del proprio corpo è sempre più forte, e persino la voce nella propria testa è pur sempre una voce. Se la materia è energia allora non esiste la morte ma solo trasformazione. Non c’è morte e non c’è silenzio. Dunque non c’è assenza, ma un venire meno. C’è poi il silenzio politico e credo che anche in questo campo il silenzio non esiste perché non parlare è una scelta precisa: non dire significa dire molto. Nella situazione attuale, vivendo a Berlino, è molto evidente chi parla e chi no, e restare in silenzio significa essere complici.