Durante uno scontro tra uighuri e polizia cinese nei pressi della località di Turpan, in Xinjiang, sarebbero morte 35 persone secondo fonti cinesi, 46 secondo Radio Free Asia. Ancora violenza e scontro etnico nella regione nord occidentale della Cina, da sempre considerata uno dei «problemi interni» di Pechino (l’altro è il Tibet). L’evento è avvenuto in prossimità del 9 e 10 luglio, anniversari di una sanguinosa rivolta etnica che nel 2009 causò 200 morti, molti feriti e tanti arresti (cui seguirono condanne capitali).

Il Xinjiang, regione nella quale vivono 9 milioni di uighuri, minoranza etnica musulmana, sta attraversando da anni una forte trasformazione: per placare il pericolo indipendentista Pechino oltre a scegliere spesso la linea dura attraverso una militarizzazione del territorio, ha provato con le altre carte a propria disposizione. Ha favorito l’emigrazione dei cinesi han – quelli che comunemente definiamo cinesi – i quali attraverso attività commerciali e turistiche hanno proceduto a modificare paesaggi e città.

Alcuni tra i centri considerati culle della civiltà islamica – come Kashgar – stanno ormai divenendo delle sorti di Disneyland, con l’aumento della tensione dovuto alla percezione, da parte degli uighuri, di sentirsi defraudati delle proprie origini e tradizioni culturali. Il governo inoltre, nell’ambito di una campagna di urbanizzazione che sta cambiando tutto il paese, ha lanciato da tempo l’iniziativa «go west» che premia gli investimenti cinesi ed esteri nelle zone occidentali del paese. Quando nel 2009 scoppiarono i violenti scontri in tante parti della regione, come era avvenuto in Tibet nel 2008, Pechino comprese che l’armonia nazionale era ancora distante e intensificò i controlli e la repressione.
Per questo la Cina ha spesso posto «la questione uighura» anche al centro di trattative internazionali, come nel caso della Siria: Pechino avrebbe fatto intendere di poter cambiare la propria politica circa le sanzioni alla Siria, nel caso di un riconoscimento internazionale del «terrorismo uighuro», con la possibilità successiva di procedere a tenere a freno le mire indipendentiste di una regione strategica per risorse e tratte commerciali. Il Xinjiang confina con otto stati ed è una caratteristica cinese avere zone fondamentali, di confine, sotto lo scacco di potenziali rivolte etniche: Xinjiang a nord ovest, Tibet a sud ovest e Mongolia interna a nord.

Rispetto agli eventi di Turpan dei giorni scorsi si hanno solo le informazioni provenienti dall’agenzia Xinhua, l’organo di stampa ufficiale: è ormai consuetudine che nelle zone dove avvengono proteste il governo decida di «chiudere» ogni canale di comunicazione, sia internet sia telefonico, rendendo pressoché impossibile la reperibilità di informazioni proveniente da altre fonti che non siano quelle ufficiali. La causa degli scontri e dell’assalto di Turpan sarebbe da far risalire a un attacco precedente nei confronti di un negozio, effettuato dalla polizia cinese, che avrebbe scatenato la reazione di massa uighura. Tra i morti due poliziotti, alcuni civili e molti dei rivoltosi. Ci sarebbero anche feriti, mentre alcuni degli uighuri sarebbero stati arrestati.

Negli ultimi mesi si erano registrati altri due episodi di scontri tra uighuri e polizia, aventi come miccia controlli della polizia cinese in abitazioni di supposti terroristi. Episodi sporadici, che però confermano come i problemi interni della Cina siano ancora distanti da una soluzione pacifica o armoniosa, come piace dire ai funzionari del Partito comunista cinese.