«Eccellenza! quali nuove!..» «Che vuol dir quell’aria afflitta?» «Un messaggio di sconfitta…». «Che sconfitta? Come? Dove?» «A Marengo…» «Tartaruga!» «Bonaparte è vincitor!» «Melas…» «No, Melas è in fuga!». In un concitato dialogo tra il barone Vitellio Scarpia e l’agente di polizia Sciarrone, nel secondo atto di Tosca, vengono smentite le notizie giunte nel primo atto: a Marengo era stata annunciata vittoria, e celebrato in Sant’Andrea delle Valle il Te Deum di ringraziamento; e poi «gran fiaccolata, / veglia di gala a palazzo Farnese, / ed un’apposita / nuova cantata» in presenza di Maria Carolina, regina di Napoli in esilio. Davvero convulsa a Roma la sera del 17 giugno 1800: quando, tre giorni dopo la data della vera battaglia, Victorien Sardou aveva collocato l’azione del suo dramma (1887): Illica e Giacosa ne cavarono per Puccini il riuscito libretto e la vicenda rivisse in musica, cento anni dopo Marengo, al Costanzi di Roma (gennaio 1900).

La battaglia avrebbe avuto in effetti una conseguenza di peso: la ritirata degli austriaci oltre il Mincio (cinque anni dopo, anche Veneto e Friuli passarono al neonato Regno d’Italia). Non solo per tale importante risultato strategico ottenuto da Bonaparte, intorno allo scontro del giugno 1800 si formò un mito: rivisita ora l’intera vicenda con brillante sguardo Gianluca Albergoni, La battaglia perduta e vinta Napoleone a Marengo (il Mulino, pp. 224, euro 18,00), secondo titolo della collana «Il giorno perfetto».

Difficile dire quanto oggi sia nota la seconda campagna italica di Bonaparte. Oltre all’assedio di Genova, con Foscolo e una caduta da cavallo di Luigia Pallavicini, stavano relazioni politiche, dotazioni militari, piani strategici e pure i ritratti dei militari coinvolti. Assestatosi al potere con il colpo di stato del 18 Brumaio (9 novembre 1799), il Primo console voleva arrestare i successi austriaci in Italia, culminati con la resa di Genova (4 giugno 1800). Fondamentale in quella campagna fu la capacità di gestire i movimenti di truppe e delle artiglierie, le comunicazioni fra truppe e comandi, ma anche gli incerti e la casualità: il successo poteva sfuggire per un ponte interrotto, una strada sbagliata, un acquazzone improvviso. Era ancora un mondo antico: Bonaparte confrontava la propria efficienza logistica e tattica con quella di Cesare. Serve dunque, con immaginazione, considerare il paesaggio della battaglia, con le truppe schierate fra vigneti e barriere alberate: eloquente la carta francese della zona (p. 83), che mostra lo stato di luoghi ove ora sono strade, ferrovie e zone industriali. Dello scontro si conservano documenti e memorie e ripensamenti storiografici di varia data. Da ciò, in modo non sempre agevole per varie deformazioni intervenute, si compone la dettagliata ricostruzione dello scontro, che il libro, con misura, integra con ipotesi strategiche (e psicologiche) circa l’attitudine dei protagonisti.

Lo scontro è seguito ora per ora (altro caso celebre: Waterloo): ciò aiuta a spiegare come accadde che l’iniziale ripiegamento francese non fosse sfruttato adeguatamente da von Melas, e come, inopinatamente, si riaprisse la partita per l’intervento di Desaix (che avrebbe detto: «Questa battaglia è completamente perduta, ma sono le tre e vi è il tempo per vincerne un’altra»). La storia di Marengo è la storia di vari generali, ma l’elaborazione successiva ne ha fatto un mito napoleonico. Pure, quella di Desaix, colpito nel corso di una manovra incauta, divenne una «bella morte» di toni plutarchei, e l’errore un presagio di vittoria. Panegiristi lo paragonarono a Decio Mure, votatosi alla patria, e a Patroclo, eroe vendicato da Achille (Bonaparte). Le parole attribuite al giovane generale morente – «Andate a dire al Primo Console che muoio con il rimpianto di non aver fatto abbastanza per vivere nella posterità» – sembrano quelle di Lucio Emilio Paolo a Canne («Va’, … riferisci a Quinto Fabio che io sono vissuto e muoio memore dei suoi insegnamenti»). Von Melas, lo sconfitto, resta invece in ombra: l’unico generale austriaco cui il Risorgimento abbia concesso qualcosa è infatti Radetzky.

Come detto, il «mito» della battaglia, nelle memorie, e poi nelle arti e nelle lettere, fu costruito intorno al solo Bonaparte (che cooperò molto alla sua edificazione). Lo mostra l’abbondante pubblicistica nell’Italia di quegli anni. Tra i vari esempi adibiti da Albergoni, emblematico il parere di Guglielmo Pepe nelle sue Memorie (1847): «da Cesare in poi, tra tutti gl’Italiani che capitanarono eserciti italici, o di Spagna, o di Austria, niuno uguagliò Napoleone» (p. 201): dove il generale è detto, senz’altro, italiano. Celebri alcune espressioni letterarie: nella memoria dei più resta il Cinque maggio. Ma il clima del tempo è meglio afferrabile dall’ode foscoliana A Bonaparte liberatore: essa ben spiega quanto faticoso fu per i patrioti italiani, in quegli anni e dopo ancora, il rapporto con le mutevoli disposizioni napoleoniche: dalle repubbliche giacobine al traffico di Campoformio, dalla riscossa antiaustriaca alla fondazione del Regno, dalle annessioni al crollo del 1814. Nel libro, dunque, accanto ai tormenti degli intellettuali stanno i testi dei letterati: Monti era felice che, per effetto della battaglia,«di Marengo la pianura / al nemico tomba diè». Francesco Gianni (1750-1822) improvvisò un canto in terzine su La battaglia di Marengo (1800), poi ripreso in Le gloriose imprese di guerra di Napoleone I (Livorno 1807). Epico l’attacco: «Canta o Musa il valor dell’Ercol Franco / Onde a Marengo le tedesche belve / Lasciar l’ossame inaridito e bianco». E dopo i poeti, minori e minimi, le cantate come Nel terzo anniversario della vittoria di Marengo: Cantata per musica, eseguita a Torino il 25 pratile Anno II, un dialogo tra Libertà, Pace, Francia e i Mari, con musica del cittadino Luigi Molino, e tante altre.

Più durevole fu la fortuna del «marengo» in oro, la moneta che recava il motto L’Italie delivrée à Marengo (sul retro, invece, Liberté Égalité – Eridania…). Memorie della battaglia rimangono nei luoghi, per i monumenti e per il locale museo (dove fu esposto anche un inedito war-game su Marengo, opera di Guido Crepax): la vicina Alessandria coltiva invece un antico spirito anti-napoleonico, al centro del romanzo dedicato a un immaginario ribelle locale (Elio Gioanola, Maìno della Spinetta. Re di Marengo e Imperatore delle Alpi, Jaca Book 2008). La pervasività del mito e la persistenza del passato napoleonico (che dopo duecento anni ancora non passa, in varie zone d’Italia) non lasciano in ombra le grandi questioni storiche. Del posto che la battaglia occupa nella storia italiana si è detto. Melas, che in campagna contro i francesi era stato festeggiato in Milano «liberata» e aveva preso Genova, a Marengo perse malamente una battaglia già vinta. Pesò forse il fatto che le truppe sue non avessero una motivazione a combattere pari a quella che Bonaparte seppe, apparentemente, sempre infondere ai suoi soldati. I quali, come i granatieri di Heine (1822) sarebbero stati pronti perfino a balzare fuori dalla tomba «Den Kaiser, den Kaiser zu schützen».