Alias Domenica

Ricordi e gusci di parole di Margaret Drabble

Narrativa inglese La vecchiaia, anzi «come invecchiamo», è il tema dell’ultimo romanzo della scrittrice inglese, «La piena», per Bompiani: una vicenda corale, teatrale, insieme spietata e indulgente

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 4 febbraio 2018

Ha raccontato più di una volta Margaret Drabble che lei non aveva nessuna intenzione di fare la scrittrice. È capitato per caso, perché si era sposata molto giovane ed era andata ad abitare in una città dove non aveva amici. Il marito recitava in teatro e lei si annoiava. Anzi, abituata alle giornate vorticose dell’università, a Stratford-on-Avon si annoiava a morte. Così, poiché davvero non aveva niente di meglio da fare, si è procurata un’Olivetti usata e si è messa a scrivere. Nell’estate in cui ha cominciato il suo primo romanzo stava del resto cercando un impiego: se lo avesse trovato probabilmente quel romanzo non lo avrebbe mai finito. Pubblicato nel 1963, tradotto in italiano mezzo secolo dopo, Voliera estiva ebbe un successo clamoroso. Lei aveva un figlio piccolo, ne aspettava un altro e pensò che scrivere poteva essere un mestiere adatto per una madre di famiglia. Bastava lavorare di notte, mentre i bambini dormivano, o la mattina, quando andavano a scuola. Non aveva che ventiquattro anni. Per fortuna scrivere le riusciva naturale.
Figlia di un magistrato e di un’insegnante, educata in un istituto quacchero di York, la ragazza Margaret in realtà avrebbe voluto essere un’attrice. Per un certo periodo, dopo la laurea in lettere a Cambridge, aveva anche fatto parte della Royal Shakespeare Company come sostituta di Vanessa Redgrave in un allestimento di Cimbelino. Invece della principessa Imogene diventò contro ogni sua aspettativa la regina della swinging London letteraria: romanziera dalle alte tirature ma insieme intellettuale influente e molto cool. Sarebbe rimasta a lungo, come l’amica e maestra Doris Lessing, la scrittrice inglese più famosa della sua generazione. Ha firmato diciannove romanzi e due raccolte di racconti, due biografie, un libro di saggi e uno di memorie; ha curato due edizioni del prestigioso Oxford Companion to English Literature. L’impegno a narrare le contraddizioni di una società tanto opulenta quanto ansiogena è ancora oggi il motivo dominante del suo lavoro. Nessuna meglio di lei ha saputo raccontare nelle sue storie la vita comune delle donne, il loro difficile cammino attraverso gli anni in apparenza spensierati della minigonna e dell’acido lisergico.
Del teatro Margaret Drabble non si è però dimenticata. La malinconica figura di un’attrice in declino, quella stessa Maroussia Darling che il lettore ha conosciuto nel precedente The Pure Gold Baby (2013), si affaccia tra le pagine del suo ultimo romanzo e lo percorre come un’ammonizione o un simbolo. Nei panni della beckettiana Winnie, con la sua sporta e il suo ombrellino, Maroussia è l’immagine più martellante, pervasiva di La piena (Bompiani «Narratori Stranieri», traduzione di Beatrice Masini, pp. 334, € 18,00): il suo corpo invisibile perché sommerso dal cumulo di sabbia, la testa che sporge ondeggiando sul palcoscenico rappresentano il senso esatto della vicenda messa in scena da Drabble nel romanzo. Ogni personaggio, come la Winnie di Giorni felici, appare a suo modo incastrato nel tempo ormai quasi finito della propria esistenza; anche bloccato dentro il ruolo non di rado indecifrabile che vi ha recitato. Lo vede nitidamente la pur cocciuta e indomabile Fran Stubbs, settantenne che arrichisce con un nuovo ritratto la galleria delle temerarie protagoniste di Margaret Drabble, mentre accanto all’amica Josephine se ne sta sprofondata in una poltrona dello Young Vic a guardare la prodigiosa, testamentaria performance di Maroussia.
Ma cosa racconta esattamente La piena, uscito in lingua originale nel 2016 con il molto più evocativo e minaccioso titolo The Dark Flood Rises che l’autrice ha ricavato da un verso di D. H. Lawrence? Soprattutto in quale modo lo racconta? «È strano come la vecchiaia riesca a insinuarsi, un processo che può notare chiunque, con livelli diversi di rifiuto, in ogni generazione della storia. Nessuno sfugge, a meno che non lo salvi una morte improvvisa. Alcuni di noi sono invecchiati bene, altri male», osservava la voce narrante di The Pure Gold Baby. Tre anni dopo è questo il tema più evidente, quasi ossessivo di La piena. Sta invecchiando Fran, che per mestiere si occupa proprio di case per anziani, mentre percorre sulla sua Peugeot le autostrade di mezza Inghilterra; nel suo buen retiro alle Canarie invecchia il celebre storico Bennett Carpenter con il più giovane compagno Ivor; invecchia Claude Stubbs, chirurgo in pensione e primo marito di Fran, chiuso nel suo confortevole appartamento a Kensington; in una lussuosa residenza per ex-insegnanti di Cambridge invecchiano Josephine Drummond e il suo collega Owen England; sta morendo nel suo letto per un mesotelioma Teresa Quinn, l’amica ritrovata di Fran; del resto anche Maroussia ha un tumore e non sopravviverà all’ultima replica di Giorni felici. Tutti invecchiano e quasi tutti muoiono, benché la vicenda occupi solo due mesi, in questo romanzo allusivamente solcato da inondazioni e terremoti che è anche un epicedio per l’ormai stremata cultura occidentale e insieme un inno al grandioso paesaggio inglese.
«Il romanzo è senza forma e senza cornice. Non ha modello, né disegno, né contorni». Questo dichiarava l’autrice a proposito del proprio mestiere qualche anno fa nel suo memoir, poche righe più avanti aggiungendo: «Scrivere narrativa è terribile. Alcuni narratori trovano la salvezza di una formula affidabile, ma io non l’ho mai fatto, non ho nemmeno voluto farlo». È straordinario il talento che rivela Drabble nel combinare il ritmo rassicurante del romanzo realista, la sua superficie smaltata, con l’architettura frammentaria e ardimentosa, disarticolata della narrativa sperimentale. Senza abdicare al suo linguaggio chiaro, costruisce una prosa increspata da brividi profondi benché spiccia, ricca di sussulti per quanto in apparenza lineare: la usa da maestra per raccontare tanto gli eventi in cui si trovano coinvolti i personaggi quanto le loro più inconfessabili reazioni psichiche. Compone con La piena una vicenda corale organizzata per singoli pannelli che salda l’uno all’altro attraverso una rete ferrea di richiami, perfetta come l’uovo che appare nella scena iniziale e in quella conclusiva della storia, certo a suggellare il suo significato più riposto. Drabble fonde ogni voce non solo nella coscienza monologante di Fran, ma anche nello sguardo assoluto, maestosamente astratto dell’autore. Offre così al proprio romanzo una forma che ricorda insieme la partitura di una pièce e il moto incessante delle onde.
All’inizio degli anni novanta, scrivendo di Gita al faro nel saggio molto suggestivo premesso a un’edizione tascabile del libro, Margaret Drabble definiva la struttura dell’opera di Virginia Woolf come l’espressione del «conflitto tra la stabilità e l’evanescenza». Il significato stesso del romanzo, spiegava, risiede nel suo «flusso», nella «marea» che sommerge instancabile e impietosa le cose del mondo. Poiché «niente rimane per sempre». Con la sua lingua insieme levigata e scabra, spietata e indulgente, commovente e ironica, Drabble narra in La piena una rivelazione non troppo diversa, anche una stessa nostalgia di consistenza, una ricerca altrettanto disperata ma eroica di ciò che forse resiste alla risacca del tempo: relitti di ricordi, gusci vuoti di parole, pensieri, baci, sorrisi. Non parla soltanto di vecchiaia, di malattia e di morte questo romanzo singolare. Come ogni storia capace di cambiare i suoi lettori, tanto potente da rimanere impigliata tra i pensieri molto a lungo, ci parla soprattutto della vita.

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