Visioni

Hangama Amiri, ricordi dell’Afghanistan nelle stoffe colorate

Hangama Amiri, ricordi dell’Afghanistan nelle stoffe colorate«Sahar, Nail Salon #1» – Manuela De Leonardis

Mostre «Bazaar, A Recollection of Home», alla galleria T293 di Roma la prima personale europea dell’artista

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 22 dicembre 2020

Un tessuto può affascinare per il colore, la consistenza, la trama, la materia, il motivo ornamentale, la storia, l’eventuale preziosità: tutte caratteristiche strettamente connesse con il suo valore intrinseco di oggetto funzionale di uso ordinario (e talvolta straordinario). Senza considerare il potere immaginifico di cui è investito, che concede un margine di sogno all’interno di una quotidianità di non sempre facile gestione.

foto di Manuela De Leonardis

L’ARTISTA afghana Hangama Amiri (nata nel 1989 a Peshawar, in Pakistan è cresciuta a Shahrara, un vecchio quartiere di Kabul) usa la stoffa come se fosse un pigmento, accosta e cuce tra loro pezze dalle diverse sfumature cromatiche per definire l’incarnato di un volto, anche per sottolineare la tridimensionalità di una prospettiva e proiettare un’ombra. La palette è particolarmente vivace, come lo sono certe volte i ricordi pronti a guizzare in una dimensione personalizzata della realtà che non è mai assoluta.

foto di Roberto Apa

NEL SUO PICCOLO studio a New Heaven (Stati Uniti), dove si è trasferita per il master in pittura e incisione alla Yale School of Art dopo la laurea in arte alla Nscad University di Nova Scotia, Halifax (Canada), Amiri ha lavorato intensamente affidando l’incertezza di questo strano 2020, in cui tutto è sospeso, all’evidenza del gesto reiterato della cucitura. Una delle prime opere che ha realizzato è Bazaar, a cui rimanda il titolo alla mostra Bazaar, A Recollection of Home alla galleria T293 a Roma (fino al 21 gennaio 2021), la sua prima personale in Europa. Anche in quest’opera, come in tutte le altre, attraverso l’impiego di chiffon, mussola, poliestere, velluto, seta, cotone e finta pelle (stoffe originali o mere imitazioni che provengono prevalentemente dall’Afghanistan, dal Pakistan e dall’India, spedite da quei paesi o acquistate nel distretto newyorkese di Queens) l’artista propone in una grandezza monumentale la visione, insieme ordinata e caotica, del bazar.

foto di Roberto Apa

Nello stesso ambiente della galleria c’è la bottega dei tessuti, del sarto (la proprietaria è una donna di nome Malalai), l’orafo, il salone di bellezza, mentre nella sala attigua è descritto anche l’interno di un salone per le unghie.
Il tributo alla forza delle donne è affidato al ritratto di Khatool Mohammadzai, prima donna paracadutista e generale di brigata dell’esercito afghano. Attraverso questi lavori iconici lo spazio architettonico viene ridefinito mettendo in relazione la memoria fotografica dell’artista con l’evocazione di una vitalità attraversata da rumori, suoni, voci, odori, movimento. È questa l’esperienza che Hangama Amiri ha vissuto tornando a Kabul nel 2010, dopo l’esilio iniziato all’età di sette anni. Tracce di ricordi sovrapposti che trovano un nuovo equilibrio nell’interazione con il presente. In particolare, l’artista coglie i cambiamenti all’interno della società afghana all’indomani della caduta del regime talebano. Anche all’interno del bazar dove, diversamente dai suoi ricordi di bambina quando vi si recava insieme alla mamma e alle zie, le donne sembrano aver acquisito maggior potere e visibilità.

IN QUEST’EVOCAZIONE creativa ed eterotopica (è lei stessa a citare Michel Foucault) troviamo alcune opere-manifesto come lo striscione politico che invita a votare una candidata che indossa l’hijab giallo e un abito dai ricami etnici e la calciatrice della squadra nazionale. Anche nei lavori pittorici precedenti, tra cui la serie The Wind-Up Dolls of Kabul (2011), Amiri aveva espresso la sua visione di matrice femminista. Il riconoscimento dei diritti fondamentali delle donne è un tema ricorrente che, in questo contesto viene sviluppato anche attraverso la rappresentazione di un universo femminile per frammenti isolati, quali gli occhi truccati o le mani con le unghie laccate. Proprio perché a lungo vietati questi dettagli diventano elementi d’insubordinazione che rafforzano la determinazione delle donne afghane nel riappropriarsi della loro identità.

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